teatro
Parioli Peppino De Filippo – Roma
Una Pura Formalità
Versione teatrale del film di Giuseppe Tornatore
di Giada Gentili
Da oltre trenta anni insieme sulle scene, Glauco Mauri e Roberto Sturno con immutato impegno e totale dedizione al Teatro aggiungono nuovi capitoli alla storia di una “ditta” all’antica italiana che felicemente coniuga impresario, attore, regista per creare nuovi e inediti adattamenti.
Nei teatri di tutta Italia hanno portato i grandi classici: Sofocle, Shakespeare, Goethe, Molière, ma anche Ionesco e Beckett, Pirandello e Goldoni, Dostoevskji e Brecht, Mamet e Schmitt, Shaffer e Andreev, fino ad oggi con la versione teatrale del film di Giuseppe Tornatore “Una pura formalità”.
Quando il film uscì nelle sale nel 1994 fu accolto, per la sua inquietante novità, con una certa difficoltà da parte della critica. Oggi è considerato uno dei suoi film più belli in assoluto; un “piccolo capolavoro”, ne erano protagonisti Gérard Depardieu e Roman Polanski con un giovanissimo Sergio Rubini.
Tema centrale di Una pura formalità: la ricerca della memoria. Gli squarci che si aprono nella mente del protagonista durante il serrato interrogatorio in uno “strano” commissariato ricostruiscono il suo passato, risalgono alle sue origini con continui colpi di scena, e come in un thriller lo spettatore arriva alla verità con un inatteso finale.
“L’intensità del racconto, il suo ritmo, illuminato da emozionanti colpi di scena, una razionale e al tempo stesso commossa visione della vita – dice Glauco Mauri – mi hanno spinto, in pieno accordo con Tornatore, ad una libera versione teatrale.
Già il film ha una sua struttura sospesa fra cinema e teatro e questo mi ha molto aiutato nel lavoro. E come negli “incontri” fortunati, la storia così magnificamente raccontata nel film, ha fatto germogliare in me emozioni inaspettate che diventavano sempre più mie.
Un’opera tanto più è valida quanto più dona a un interprete la possibilità di scoprire sfumature umane e poetiche in essa nascoste.
Ho cercato di far rivivere tutta la forza drammatica della sceneggiatura modificandone quelle parti che si presentavano con dei connotati troppo cinematografici, preservandone al tempo stesso quell’intensità che dall’inizio ci avvolge nel suo misterioso intreccio”.
Il racconto rimane oscuro fino al suo sconvolgente epilogo dove i pezzi lacerati di una vita si compongono in una serenità inaspettata e commovente: un capovolgimento radicale di quello che sembrava un giallo.
Un delitto è stato commesso e ne viene accusato un celebre scrittore, Onoff.
Ma, pur con la tipica atmosfera di un thriller, “Una pura formalità” è un viaggio alla scoperta di se stessi, di quella che è stata la propria vita.
“Gli uomini sono eternamente condannati a dimenticare le cose sgradevoli della loro vita; e più sono sgradevoli e prima si apprestano a dimenticarle”. Ecco quello che scrive in uno dei suoi romanzi Onoff, che nella lunga notte di Una pura formalità cerca ansiosamente di ricordare… ricordare… cosa?
Un altro uomo aiuta Onoff in questa faticosa ricerca di un passato che si è voluto dimenticare: un inquietante commissario di polizia, un personaggio duro e ironico, comprensivo ma implacabile…
Non può non sovvenire il ricordo del grande Dostoevskij e il rapporto tra Porfirij e Raskolnikov in Delitto e Castigo.
Tutto si svolge in una sperduta stazione di Polizia. Ma lo è veramente? E dove si trova? E quelle strane persone al suo interno, sono poliziotti? Cosa aspettano?
La storia fa nascere numerosi interrogativi ed è pervasa di “misteriosi perché”.
Il cinema ha le sue ricchezze espressive, il teatro ne ha altre che sono sue proprie. E su un palcoscenico, nel nostro caso, la parola assume un valore non solo di racconto ma anche di invito alla fantasia e alle domande. Domande necessarie all’uomo per aiutarlo a cercare di comprendere quel viaggio a volte stupendo e a volte terribile ma sempre affascinante che è la vita.
Zen e l’arte della manutenzione della Marionetta
di Massimiliano Troiani
“Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una motocicletta, con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore. Pensare altrimenti equivale a sminuire il Buddha”.
Questa considerazione di Robert Pirsig in un saggio che conobbe un lusinghiero successo negli anni ottanta, ci può essere d’aiuto per entrare in un campo tanto nebuloso quanto intrattabile a parole, qual è quello della poetica del burattino.
Diciamo innanzitutto che una poetica del burattino, come materiale, non esiste, perché un materiale non determina mai in partenza il contenuto dell’opera, ma è sempre portatore di significato e, entrando poi in rapporto con tutta la struttura artistica del testo, della musica, del movimento, ecc. diventa un fatto artistico.
Proviamo ad accostare il teatro dei pupazzi come si fa con le strutture di un linguaggio e scopriamo una dimensione che, agendo mediante l’immagine, contribuisce a creare quel fenomeno che è stato definito fare anima, ovvero un procedimento per il quale i romantici dell’ottocento scelsero la Grecia con i suoi miti, senza essere mai andati in Grecia e senza conoscere una parola di greco, mentre i letterati europei dell’ultimo dopoguerra scelsero l’America e i loro colleghi Americani, a loro volta, guardavano all’Oriente o all’Africa. Dunque il luogo lontano e sconosciuto è un’immagine che fa anima e anche il teatro può funzionare allo stesso modo: sia che si parli di Shakespeare o Pulcinella, sia che si tratti di musical o postavanguardia, i conti si fanno sempre con una dimensione interna, composta di immagini popolate di volta in volta da diavoli, fanciulle, montagne impervie oppure solitudini evocate da capanne o da pompe di benzina in disuso.
Il teatro è un sentiero e come lo Zen sfida la matematica, promuove la quadratura del cerchio e non accetta specializzazioni troppo strette. Chi muove un burattino (che potrebbe essere anche il proprio corpo o la propria voce) sa che a volte si producono effetti strani, che poco si possono controllare e che partono da lontane regioni della mente (ma sarà poi la mente?). E forse è proprio da una di quelle regioni che nasce la possibilità di colpire ad occhi bendati una candela a sessanta metri di distanza, proprio come racconta Eugen Herrigel riportando la sua esperienza dello Zen e il tiro con l’arco. In quei momenti, allora, ci si accorge che la divisione Burattinaio/Burattino/Baracca/Pubblico è tutta una finzione, un procedimento irreale come la divisione Arciere/Arco/Bersaglio.
E in fondo anche un attore, che seguisse la tecnica dello straniamento suggerita da Brecht, potremmo considerarlo sulla stessa traccia, un sentiero che tratta il proprio corpo come un fantoccio, che percepisce in sé il burattinaio che muove i diversi pezzi, e questi pezzi possono essere anche la personalità, la volontà e tante altre belle cose, mentre il Grande Burattinaio resta comunque nascosto dietro un velo.
A questo punto ci può essere d’aiuto prendere in prestito da Walter Benjamin il termine Crock: con questa espressione lui definiva il momento in cui l’hashish gli apriva uno spiraglio di luce, una porta sulla percezione. Perciò se il Buddha è davvero presente tra i fili della marionetta e nel movimento rozzo del burattino, troviamo ingredienti a sufficienza per considerare la tecnica un elemento sottomesso a quell’indefinito Crock, che rende possibile la distinzione tra un’opera d’arte e un prodotto da usare e poi mettere da parte.
Il Crock c’insegna che l’arte nasce da dentro e la tecnica è il veicolo che la rende leggibile; fare il contrario significherebbe invertire le polarità, considerare buona una poesia perché è scritta in bella calligrafia, procedimento che non è sufficiente neanche nella poesia giapponese, dove gran parte della bellezza di un componimento è giudicata in base all’eleganza degli ideogrammi con cui è scritto.
Tutto questo ha portato all’affanno molte persone che cercavano di inventarsi idee originali e materiali nuovi su cui costruire ciò che poi non serve; il materiale va cercato altrove e, come al solito, è sempre più vicino di quanto non si creda.
Il teatro allora accetta che ci si sintonizzi sulle sue onde e permette che dal suo ventre nascano grandi tradizioni che danno vita a splendide marionette: il teatro No, Totò, Eduardo, Karl Valentin, Carmelo Bene e tanti altri. A questi fenomeni le scuole e le idee “originali” vanno troppo strette e, da lì, il segreto è davvero incomunicabile. Questo ovviamente non vuol dire che l’unico sentiero praticabile è una tradizione inchiodata ai suoi paletti, tutt’altro; anche perché questo significherebbe nobilitare una salma che, come tale, non riesce a interpretare il tempo che cambia, un problema che è ormai diventato il GRANDE PROBLEMA del teatro nella società del terzo millennio.
Così, tra tanti consigli e ricette teatrali, il poeta Sandro Penna avrebbe suggerito: ”Beato chi è diverso essendo egli diverso, ma guai a chi è diverso essendo egli comune”.