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racconto

Il Battesimo
di un cacciatore

Un’antica storia del popolo Aaroesh,
e di Athor figlio di Rowan

di Ruggero Scarponi

Mia madre Hinna si oppose ostinatamente quando annunciai che sarei andato a caccia, da solo, per la prima volta, senza mio padre. Avevo dodici anni e quindi, essendo adulto potevo farlo. Ammetto comunque che la trepidazione di mia madre mi faceva piacere. In fin dei conti ero ancora molto giovane e da poco mi ero staccato dalle sue cure. Hinna fece pressione su Rowan, mio padre perché mi convincesse a non andare. Ma mio padre, che ben sapeva con quale ansia noi giovani cacciatori Aàroesh aspettiamo quel momento, per non scontentarla, finse di parlarmi a lungo dei pericoli che si potevano incontrare nella foresta. Mia madre Hinna, divenne furibonda quando comprese come tra noi uomini vi fosse un’intesa da cui lei si sentiva esclusa. Tuttavia Rowan, non mancò di darmi dei buoni consigli.

La caccia alle anatre per noi Aàroesh, non è una vera e propria caccia, perché la consideriamo facile e priva di rischi. Ma dovendo conciliare le mie esigenze di cacciatore adulto con la pace famigliare mi accontentai di quel compromesso. Mia madre Hinna si sentì rassicurata e si rappacificò con Rowan. Pensai che dopo le prime cacce si sarebbe abituata e finalmente mi sarei potuto immergere nella foresta alla ricerca di prede più consistenti. Un Aàroesh considera degna una preda come il cervo, l’alce, il cinghiale, oppure la volpe e più d’ogni altra il gigantesco orso delle grotte presso la foresta dei tronchi pietrificati. Ripensavo a mia madre, mentre m’ incamminavo per lo stagno delle anatre. Certo nell’irritazione di Hinna di sicuro doveva aver avuto una buona parte la sua disapprovazione per la notte da me trascorsa nella casa delle cortigiane. Non me l’aveva detto ma mi aveva mostrato una freddezza inusuale che valeva più di molte parole. Mio padre Rowan, invece, mi offrì una comprensione che mi fece sentire adulto, per la prima volta. Così con questi pensieri mi avviai oltre le sorgenti del Dewar fino alla foresta di Thenkur. Raggiunsi lo stagno e mi disposi a tendere l’agguato acquattato tra le canne, immobile e silenzioso. Era ancora buio e spirava una brezza leggera ma piuttosto fresca.

   

L’eccitazione non mi faceva sentire il freddo che mi penetrava nelle ossa né il sonno avendo dormito pochissimo per poter raggiungere in tempo il luogo stabilito. Ai primi chiarori il cielo sopra di me fu solcato da alcune poiane, di ritorno al nido dopo la caccia notturna. In lontananza un picchio si dava da fare con forza contro un tronco robusto. Un capriolo scese a bere. Era a breve distanza, se avessi avuto l’arco con me l’avrei potuto colpire facilmente. Me ne rammaricai, ma restai immobile in attesa delle anatre. Sapevo che sarebbero arrivate sul far dell’alba. Bisognava essere pazienti. Trasalii. Sentii strusciarmi le gambe da qualcosa di viscido e guizzante. Niente paura, un biscione, lungo ma innocuo. Pensai allora a Hinna che si preoccupava per me. E io che rabbrividivo per una biscia e il fresco della notte. Compresi che l’età da sola non ti fa diventare adulto. Sono le prove della vita a crescerti. La brezza si trasformò in vento, freddo e teso. Le canne presero a ondeggiare scosse dall’aria turbolenta. Facevo difficoltà a mantenere la visuale, continuamente coperta dalla vegetazione in subbuglio. Mi pentii di non aver dato ascolto a mia madre e di non aver portato la giubba pesante. Il freddo al momento era il mio nemico peggiore. Battevo i denti e stare con le gambe nell’acqua stava diventando intollerabile. Pensai con imbarazzo alla possibilità di abbandonare la postazione per mettermi sulla terra asciutta. Ne avrei compromesso la caccia. Ritornare a casa senza prede? Impossibile. A memoria di Aàroesh non era mai accaduto che alla prima uscita un giovane cacciatore rientrasse a mani vuote. Eppure quella caccia che doveva essere facile si stava trasformando in un tormento. Il cielo oltretutto si era coperto e la luce del sole non riusciva a squarciare il fitto strato di nuvole. Scese una pioggerella fine e fitta. Sapevo per esperienza che preludeva a un temporale, forse anche di notevole violenza. Che fare allora? Abbandonare? No, dovevo resistere. Sapevo anche, però, che le anatre, o arrivavano entro pochi minuti, o non sarebbero più arrivate quel giorno, perché in presenza di un forte temporale disertano gli specchi di acqua aperti. Oramai ero inzuppato dalla testa ai piedi e le mani con le quali reggevo la cerbottana mi si erano gelate. Per allentare la tensione e ricevere un po’ di calore trassi, con molta cautela, dalla borsa che tenevo a tracolla un pezzo di focaccia dolce. Ma mentre ero intento a quell’operazione giunsero le anatre. Lasciai cadere in acqua la focaccia e mi concentrai. Era fondamentale mantenere un’assoluta immobilità e il più religioso silenzio. Mi resi conto che il rumore che da un po’ avvertivo distintamente era dovuto al battito dei miei denti. Bloccai con uno sforzo di volontà le mascelle. Le anatre nel frattempo come loro abitudine erano discese sullo stagno in formazione. Il capo stormo davanti e a seguire tutte le altre, per ultime le più giovani. Attesi che si assestassero e si disponessero sulla superficie dello stagno. Erano molto guardinghe. Era quindi necessario che si sentissero tranquille. In quel momento, qualsiasi movimento o fruscio le avrebbe spaventate e indotte alla fuga. Cercavo in tutti i modi di controllare il mio corpo che era percorso da continui tremiti. Così non sarei riuscito a tenere ferma la cerbottana e a prendere la mira. Poi un tuono in lontananza annunciò il temporale. Dovevo agire, non c’era più tempo. Il dardo era già pronto, inserito nel tubo. In quel momento, apprestandomi all’azione, raggiunsi inaspettatamente una calma assoluta. I miei gesti divennero, morbidi e misurati. La vista si fece acuta, l’udito fine, il tremore scomparve ed io fui una cosa sola con la cerbottana. Lanciai con una sequenza rapida e senza esitazione, sei dardi di fila. Spostando la mira da un animale all’altro con sicurezza. In me si era risvegliato il cacciatore e mi sentivo in competizione con la natura. Un brivido mi percorse, ma stavolta non di freddo, di eccitazione, quando mi resi conto di non aver fallito neanche un colpo. Ora mi sentivo sicuro e spavaldo. Il rumore del tuono si faceva più vicino, la pioggia aumentava di intensità e le anatre, come percorse da un misterioso richiamo, si alzarono tutte contemporaneamente in volo, passando di poco sopra la mia testa e sfiorando le cime delle canne. Era quello che volevo. Liberai dalla cintola il legno ricurvo. Presi la mira, con calma e lo lanciai. Avevo imparato una tecnica che mi consentiva, calcolando la giusta traiettoria e dosando la potenza del colpo, di abbattere due animali, uno dopo l’altro con un unico lancio. Rimasi sorpreso della determinazione di cui ero capace e dell’elasticità del mio braccio che eseguiva in maniera perfetta quanto il pensiero gli comandava. Tutto avvenne in un batter d’occhio. Il bastone ricurvo come programmato abbatté i due uccelli, in successione, e questo nonostante lo scrosciare della pioggia e la scarsa visibilità, dovuta al temporale che aveva oscurato il cielo. Otto anatre! In tutto quel mattino avevo abbattuto otto anatre. Una caccia straordinaria considerando le condizioni in cui mi ero trovato. Pensavo già ai racconti che ne avrei fatto al mio ritorno. I miei fratelli più piccoli, tutti intorno a chiedere particolari e le mie sorelle che avrei impressionato con la storia della biscia. E il freddo e il temporale e i tuoni e tutto, tutto avrebbe contribuito a fare di quel racconto un episodio memorabile. E poi lei, Hinna mia madre che mi avrebbe accolto tra le braccia con mille premure. Non vedevo l’ora di rappacificarmi. E di lasciare alle spalle quella freddezza che mi aveva gelato il cuore. Immaginavo poi, Rowan, seduto in disparte, limpido e austero, osservare compiaciuto quel quadretto famigliare. Ah! La famiglia! Una calda, sana e rispettabile famiglia Aàroesh.

Pensavo a tutte queste cose con il sorriso che affiorava sul mio viso mentre mi affannavo a recuperare le prede. Volevo fare in fretta per ritornare a casa il prima possibile e godere di quelle scene che avevo fantasticato e anche di un ambiente caldo e asciutto. Improvvisamente però, mentre stavo recuperando le ultime due anatre colpite con il bastone ricurvo, cadute proprio nel mezzo di un sentierino, mi vidi attraversare il passaggio da un cinghialetto di modeste dimensioni. Valutai subito il da farsi. Otto anatre erano un’ottima caccia, ma arricchirla con un cinghiale mi avrebbe fatto finire su qualche poema composto per l’occasione e cantato alle generazioni future. In quel momento mi sentivo invincibile. Sentivo inoltre di conoscere tutti i segreti della foresta e la pioggia, ora, mi era indifferente e tutta quell’eccitazione mi aveva fatto passare dai tremori gelati del primo mattino ad un’ esuberanza calorosa.

   

Con che cosa avrei potuto cacciare il cinghiale? Non ebbi esitazione, se fossi stato molto veloce e aggirando un’ampia macchia cespugliosa forse avrei fatto in tempo a trovarmelo di fronte. A quel punto non avrebbe avuto scampo, il legno ricurvo, lanciato dal mio braccio infallibile, l’avrebbe colpito proprio sopra il muso in corrispondenza del cervello, abbattendolo all’istante. Pregustavo la gioia di quel trionfo. Sarei tornato a casa portando le anatre, che già da sole rappresentavano una buona caccia e poi al colmo dei festeggiamenti come se niente fosse avrei finto di aver dimenticato fuori della porta ancora qualcosa e una volta mostrato con indifferenza il cinghiale, avrei suscitato entusiasmi inenarrabili. Legai le anatre insieme e me le misi a tracolla. Avevo le ali ai piedi mentre percorrevo i sentieri che ora mi tornavano alla mente con una lucidità cristallina. Tutto mi sembrava facile. Feci proprio come pensato. Compii l’ampio giro intorno alla macchia di rovi e noccioli, meravigliandomi io stesso di come fossi agile sul terreno reso viscido e fangoso dalla pioggia abbondante. Ah se ci fosse stato Rowan a vedermi, che spettacolo, come sarebbe stato orgoglioso di suo figlio. Percorrevo i sentieri saltando tronchi abbattuti, rami, cespugli e tutto con una leggerezza talmente silenziosa che intorno a me potevo udire distintamente i rumori della foresta. Ero inebriato dai profumi delle piante resinose che trasportati dal vento ed esaltati dalla pioggia mi investivano prepotentemente. Tutto mi appariva limpido e…Me lo trovai di fronte, a pochi passi, anche se non riuscivo a scorgerlo bene a causa della vegetazione che ne occultava la scura massa coriacea. Anche il cinghiale incontrandomi sul sentiero si era fatto i suoi conti e aveva pensato di attendermi nel punto a lui più favorevole, subito dopo una curva tra gli alberi e per di più nascosto dai cespugli. Il colpo che ne ricevetti fu violentissimo. Ebbi la sensazione di essere scaraventato verso la cima degli alti alberi. Vidi il cielo che ora si stava aprendo per lasciar filtrare uno spiraglio di luce dorata. Tra me pensai che quella sarebbe stata l’ultima luce della mia vita. L’animale mi aveva caricato cercando il punto vitale. Appena giunto a contatto con il mio corpo, prima che l’energia dell’impatto si scaricasse violentemente, aveva avuto cura, con una sagacia impressionante, di alzare il muso e conficcarmi le zanne nella pancia in modo che al momento di essere scagliato lontano dall’urto, le zanne fungendo da autentici uncini mi dilaniassero le viscere senza concedermi scampo. Fu solo per un caso che perdendo l’equilibrio nella corsa, sorpreso dalla presenza imprevista dell’animale, finii per presentargli solo il fianco e anche di sghimbescio. Questo mi salvò. Il colpo non sarebbe stato mortale. Persi conoscenza. Il sangue stava probabilmente uscendo a fiotti. Mischiato alla pioggia e al fango doveva aver già colorato di rosso il sentiero, dove stavo giacendo. Il cinghiale, soffiando rabbioso decise di ritornare alla carica. Doveva aver intuito che non mi aveva finito al primo assalto e ora voleva completare l’opera. Si gettò ancora su di me mirando di nuovo al fianco, l’altro rispetto a quello ferito per poi straziarmi le viscere affondando nella pancia le forti zanne. Era la fine. Nel buio che stava oscurando la mia mente, ricordo di aver avuto un pensiero per Hinna…mamma. Poi più niente, solo il rumore dei mille rivoli e rivoletti che la pioggia cessando aveva creato nelle infinite varietà di terreno della grande foresta. Fra poco il sole avrebbe di nuovo fatto la sua comparsa. Mi raccolse Rowan, mio padre, il grande cacciatore. Non mi aveva lasciato un solo istante. Non lo aveva detto a Hinna, non voleva che pensasse che suo figlio non fosse in grado di cacciare da solo. Ma mi aveva seguito senza farsene accorgere. Così aveva condiviso con me il freddo della mattina e si era compiaciuto della mia abilità con le anatre. Poi quando aveva compreso quale fosse la mia intenzione con il cinghiale, con discrezione mi aveva seguito. Aveva intuito il piano dell’animale, ma non aveva fatto in tempo a fermarmi. Ero stato troppo veloce nella corsa. Ma quando l’animale aveva tentato di finirmi con il secondo attacco, gli si era parato davanti furioso come un leone e lo aveva abbattuto con un solo colpo di daga. Non so immaginare l’effetto che provocai quando Rowan mi riportò a casa. Dovevo essere in un lago di sangue. Non so quante lacrime avrà versato Hinna e quante le mie sorelle e i miei fratelli. In quell’occasione si verificò un fatto inconsueto. Hinna che da brava donna del sud amava sconvolgere le rigide convenzioni del nostro popolo, fece una cosa assolutamente fuori dell’ordinario. E Rowan, mio padre, cui devo la vita, la sostenne come al solito, limpido e austero. Fu, infatti, in quei giorni, che l’intero campo venne a farmi visita, mentre ero tra la vita e la morte. Non ricordo nulla di tutte quelle persone che si davano pena per me. Ma tra tutte ci fu una che diede scandalo. Avevo la febbre alta e sembrava proprio che non sarei riuscito a superare la crisi dovuta alla ferita. In stato di totale incoscienza ricevevo da mia madre e dalle mie sorelle le cure più assidue. Bussò alla porta una donna e chiese di potermi vedere. Non la fecero entrare. Allora lei restò di fuori, in attesa e pregò solo di essere tenuta al corrente di come evolveva la situazione. Non le dissero nulla e non le risposero. La donna, mestamente, si accovacciò davanti alla nostra casa, al freddo e anche sotto la pioggia, con i capelli che le ricadevano sul viso e le vesti zuppe di acqua. Si apprestava a passare così la notte. Hinna, col suo temperamento meridionale, vinta dalla compassione, aprì la porta e la fece entrare. Per un momento si guardarono negli occhi. Mia madre era di poco più anziana, ma comprese con lo sguardo ciò che Marghe non osò dire a parole. Hinna le cedette il posto. E fu Marghe, la cortigiana, a curarmi, per un mese intero senza darsi un attimo di tregua. Con il volto scavato dal digiuno e gli occhi infossati dal pianto, non tralasciò nulla di ciò che potesse aiutarmi a guarire. Marghe era assai ricca e spese a profusione il suo denaro per far giungere persino dal capoluogo imperiale del nord, dei medici esperti. Lentamente la ferita cominciò a rimarginarsi. E fu come un raggio di sole dopo una tempesta che una mattina riuscii a riaprire gli occhi. Avevo sopra di me due donne che avevano segnato la mia vita. Hinna mia madre, la bella donna del sud e Marghe la cortigiana, che mi aveva insegnato l’amore e che solo mio padre Rowan e mia madre Hinna avevano acconsentito ad accogliere in una rispettabile casa Aàroesh.


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)