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Arte

La pittura anglosassone
tra arte, identità e dissacrazione

di Margherita Lamesta

Roma si mostra e due palazzi storici della città eterna, Sciarra e Cipolla, ospitano rispettivamente la nascita e l’ascesa dell’identità nazionale pittorica inglese, nel ‘700, e la nascita oltreoceano di un nuovo concetto artistico volto a conferire lo status di opera d’arte alla banalità trovata nella realtà, dissacrando così eroismo, tradizione, identità e idea stessa di capolavoro con Andy Warhol.

La mostra Hogarth Reynolds Turner pittura inglese verso la modernità parte, enunciando una posizione di marginalità dell’arte inglese rispetto alla pittura continentale, cui contribuì un disinteresse incentivato anche da motivi storici e religiosi.

Nel ‘500, infatti, Enrico VIII, istituzionalizzando la Chiesa anglicana, si allontanò formalmente dal Papato, marginalizzando ogni forma di committenza artistica, a differenza dei papi, storicamente tra i primi mecenati d’arte.

In due secoli, però, Londra era cresciuta rapidamente, passando dallo status di città feudale a quello di città commerciale e molto popolosa con circa un milione di abitanti, un incremento demografico rapidissimo, dopo l’incendio del 1660, che trovava eguali nella memoria solo nella Roma imperiale.

Infine, nel ‘600-‘700, si diffuse il Vedutismo in Inghilterra, grazie a maestri come Canaletto che trasferì nei suoi quadri londinesi la stessa luce italiana, modernizzando il genere pittorico da lui messo in opera con la messa in scena di punti di vista nuovi, in cui, ad esempio, si avverte la seduzione offerta dalla monumentalità di uno dei prodigi ingegneristici più rivoluzionari dell’epoca, simbolo emblematico di modernità, quale fu la costruzione del ponte di Westminster.

Progresso, scienza, tecnologia, esplorazioni geografiche, rivoluzione industriale; industriali, artisti, attori, sportivi ecco i temi e i rappresentanti del self made man. Siamo in piena ascesa del cosiddetto Nuovo Mondo, che rivoluzionerà l’assetto sociale inglese e darà alla nazione il là per un imprinting nuovo nella mentalità inglese, con cambiamenti epocali nella classifica dei valori, nella mutazione degli stessi, per costruire un’identità artistica, che da questo momento in poi andrà definendosi sempre più. E fu nella pittura di paesaggio e nel ritratto che l’Inghilterra trovò una cifra pittorica di valore identitario, forte al punto da fare scuola.

Aprendosi alla ricerca di un qualcosa che li affrancasse dalla Royal Academy, gli artisti inglesi immortalarono paesaggi esotici come la colonia indiana, ad esempio, o ritrassero il primo viaggio del pallone aerostatico a idrogeno di Lunardi o ancora la Victory, famosa nave da guerra inaffondabile di sua maestà, a dimostrazione di un’indiscussa supremazia militare inglese sui mari. Gli artisti si rifecero cioè a elementi, episodi e personalità che raccontassero la storia dell’Inghilterra.

   

Il pittore Hodges, che accompagnò il navigatore Cook nel viaggio d’esplorazione alla volta di Tahiti, nel suo olio su tela Tahiti rivisitata del 1776, presente in mostra, non dimenticò di ritrarre particolari testimoni sia di una natura selvaggia e serena sia di peculiarità culturali e tribali del posto. Nel dipinto, infatti, sono raffigurate tre giovani donne ai bagni con tatuaggi in bella vista accanto ad una sagoma totemica ma la loro posa richiama anche la tradizione artistica continentale, riportandoci subito alla mente le ninfe della mitologia classica.

È chiaro che, se il bisogno d’identità pittorica poté trovare una sua strada autonoma nel genere e nei temi, nella tecnica, tuttavia, non si poteva prescindere dallo studio della statuaria classica per il ritratto, ad esempio.

Se Hogarth con la sua serie d’incisioni ad acquaforte dal titolo Marriage à la mode, presenti in mostra, riuscì a mettere in scena come scatti fotografici in sequenza una vera e propria denuncia amara e ironica dei vizi sociali propri della nuova società inglese, appagando anche il suo desiderio di recupero dell’arte intesa come strumento di educazione etica, Fussli - uno svizzero naturalizzato inglese - andò addirittura oltre. Egli nel suo ciclo dedicato a Shakespeare, grande autore dei vizi e delle virtù umane che andavano ben oltre i confini inglesi ma restava dentro il perimetro dell’isola in termini di appartenenza geografica, considerato il padre del genio inglese e uno dei riferimenti più calzanti per un’arte alla ricerca d’identità nazionale, operò una doppia azione: esaltò, sì, l’estro del celebre drammaturgo del secolo precedente in direzione di un orgoglio nazionale ma conferì anche ai suoi quadri quella dimensione di richiamo all’antico, che faranno di lui un anticipatore del romanticismo e un caposcuola addirittura.

In mostra si possono ammirare, a tal proposito, alcune grandi tele a olio di Fussli, che trasfigurano un’interpretazione originale e personale del Sogno di una notte di mezza estate. L’artista nella sua carica di folletti, richiami gotici e accenni alla statuaria classica – la posa di Titania, ad esempio, in Titania e Bottom del 1790 - lasciano lo spettatore a bocca aperta di fronte anche alla raffinata velatura usata dal pittore nel suo lavoro, per enfatizzare gli aspetti più fiabeschi e onirici messi in scena.

Per quanto riguarda la pittura di paesaggio, invece, essa cominciò ad assumere una sua dignità artistica, nell’Inghilterra di questo periodo, grazie all’acquarello che non furono gli inglesi a inventare ma con loro si affermò come genere autonomo, specie con l'ideazione da parte dei fratelli Reeves, nel 1790, della Paintbox, colori in pastiglia confezionati in un comodo set da viaggio. L’acquarello, fino a quel momento, aveva assunto solo una funzione gregaria: portare sulla tela una maggiore sensazione d’immediatezza e di recupero di particolari dettagli. La possibilità di dipingere direttamente all’aperto - on the spot – che la nuova scatola portatile dei colori dava, infatti, si rivelò un’innovazione di grande portata. Non si doveva più rimandare alla pittura su tela, al chiuso, la traduzione dello schizzo all’aperto. E la mostra dedica una sezione ad acquarellisti come Cozens, Sandby, Towne che si distinsero per vividezza di colori, pienezza delle forme e per l’originalità degli scorci raffigurati, in cui torna la natura del fotogramma dettato questa volta dalle pagine di un taccuino, immaginaria guida per una sequenza filmica anche nella mente dello spettatore: Francis Towne Le sorgenti dell’Arveyron con il Monte Bianco sullo sfondo, 1781, penna e acquarello su carta, presente in mostra.

   

Certamente l’Italia non perse la sua natura d’ispirazione - come la tradizione fiamminga, specie in alcuni ritratti - e anche in tempi in cui si cercava una cifra pittorica identitaria inglese, il Gran Tour che gli artisti facevano verso il Belpaese era indispensabile per riempire i loro occhi della Nostra luce e del Nostro miracolo paesaggistico, senza perdere di vista il potenziale naturalistico che la loro Terra poteva offrire sia in termini di contrasto con l’Italia e i cieli italiani sia in termini di visione in qualche misura osmotica, tra le due realtà paesaggistiche così distanti geograficamente.

Turner e Constable, i due famosi paesaggisti inglesi, cui la mostra dedica una sezione parallela importante, incarnarono appieno quest’aspetto. Essi, tuttavia, non potevano differire di più nella loro resa pittorica come nella loro biografia, pur trattando lo stesso tema; una natura sinonimo di genius loci e sintesi concettuale per Turner, il grande affabulatore e viaggiatore che perfezionava solo il giorno prima dell’esposizione la pennellata appena accennata sui suoi quadri, contro la natura dello schivo Constable, raffigurata con una pennellata sempre più nervosa per meglio rendere l’immediatezza e la freschezza di un paesaggio dominante e incontaminato. Entrambi portarono dentro la loro arte il senso della pittura on the spot ma con effetti che presentavano fermenti quasi d’astrattismo - inteso come ricerca sensoriale di un particolare attimo privo di risvolto figurativo - nel primo e barlumi d’impressionismo nel secondo.

Col ritratto, invece, si consacrò nella pittura inglese, il prestigio della nuova borghesia, autrice di una rinnovata e proficua committenza artistica e desiderosa di un potere sempre maggiore. Poiché il credo sociale e religioso esaltava la volontà, il valore individuale, il talento e la risposta positiva del mercato quale premio per il proprio impegno, i soggetti ritratti non erano più gli aristocratici ma i mercanti, gli uomini di scienza, gli sportivi, i musicisti, gli artisti stessi. Lo stesso Reynolds si autoritrae in abiti eleganti, mentre stringe fra le mani un testo (Joshua Reynolds Autoritratto 1775, presente in mostra), a significare la sua ascesa al rango d’intellettuale. Ecco perché quel che importava rappresentare era soprattutto l’aspetto psicologico e la personalità del soggetto ritratto, senza nessun interesse per lo status sociale di origine aristocratica.

I conversation piece, tipologia di ritrattistica di gruppo tipicamente inglese, prediligevano gli ambienti intimi e le pose bizzarre, ironiche. Due esempi davvero rappresentativi in mostra lo evidenziano, uno dei quali, Ritratto di gruppo con Lord John Harvey di Hogarth del 1759, mette in scena particolari anche scabrosi per l’epoca, come l’omosessualità o l’appartenenza a una loggia massonica e la critica ironica verso la scienza, rappresentata da un seguace di Newton in procinto di cadere dalla sua sedia-trono.

   

L’eroismo, invece, d’ispirazione continentale e perlopiù italiana, lo ritroviamo nelle gigantesche tele di Reynolds in cui il simbolismo virginale della natura e il richiamo alla Venere pudica greca del ritratto di Lady Bampfylde (1776-1777) o la clemenza militare, messa in scena nella raffigurazione di un luogotenente senza guanti - quasi a lasciar intendere la possibilità di una stretta di mano conciliatoria rivolta al nemico - fanno di lui un artista del ritratto di grande spicco. Lo stesso Kubrick ne restò affascinato e s’ispirò in modo chiaro alla ritrattistica inglese del periodo, quando girò Barry Lyndon (1975) con una lady Lyndon-Marisa Berenson che sembra sovrapporsi proprio a Lady Bumpfylde di Reynolds.

Siamo in un momento in cui un attore diviene per la prima volta una celebrità, anticipando il fenomeno vip del divo hollywoodiano di vari secoli più tardi. Fu il caso di David Garrick, di cui la mostra presenta vari ritratti ad opera di Soldi, Zoffany, Reynolds, che lo raffigurano sia nel suo atto di recitare sia in una cornice intima, dove il copione non perde mai la sua dimensione di primo piano, nobilitando l’aspetto accademico della formazione attoriale e riscattando anche attraverso l’arte pittorica una professione spesso considerata adatta a guitti e a donne di malaffare, un’eco negativa mai del tutto cancellata ancora oggi, purtroppo. Lo stesso Vittorio Gassman si pensa ne abbia tratto ispirazione per il suo O Cesare o nessuno del 1975.

È naturale che - di fronte ad un simile sforzo identitario - accettare una posizione di mercificazione e livellamento allo stato di pura serialità, come una catena di montaggio senza distinzioni di generi o soggetti in un’opera d’arte lasci un po’ disorientati, benché siano trascorsi altri due secoli e questo fenomeno sociale e artistico sia nato con Warhol nelle colonie inglesi più maltrattate: gli Stati Uniti.

   

Andy Warhol, di cui Palazzo Cipolla ospita la collezione privata raccolta da Peter Brent, era ossessionato dalla celebrità ma essa fu raggiunta attraverso un’operazione opposta rispetto a quella compiuta dagli inglesi del ‘700, non con il desiderio e l’impegno di raffinare una tecnica, specificizzare i temi, bensì dissacrando ogni forma di capolavoro e di unicità talentuosa. Ecco che la scatoletta della zuppa Campbell diviene emblematica come opera d’arte, finalmente pop, popular, cioè accessibile a tutti ed espressione di un’artista che non deve conquistare un rango da demiurgo, autoritraendosi con piume, tavolozza di colori o tanto di testo in mano ma saper essere un bravo comunicatore, col dono di rendere l’opera d’arte accessibile a tutti.

La pop art non cercava il Bello e il Sublime ma la realtà nella forma più banale. Eppure con quest’ossessione della riproduzione in serie imprimeva, nelle tele e negli occhi, in modo vigoroso anche temi scottanti come quello della morte, ad esempio, attraverso una serie di teschi che sorridevano e presentavano un’ombra fetale d’apertura verso il nuovo o mettendo in scena una serie di sedie elettriche, al pari di Liz Taylor, Mao, Marilyn, Elvis, Monalisa, e vista dagli occhi di Warhol come fosse un crocifisso, di cui l’artista americano non voleva recuperare l’orrore e il dramma sanguigno ma la sola dimensione estetica.

Certamente l’operazione di democratizzazione dell’opera d’arte compiuta da Warhol è concettualmente geniale in termini di uguaglianza delle genti, perché raffigurare la lattina di Coca Cola per lui equivaleva a dire che una coca cola non è diversa, se a berla è un capo di stato o un clochard. Una coca cola non cambia il suo gusto e tu puoi essere come il presidente attraverso di lei trasfigurata da Warhol. Ecco che la celebrità diventa un diritto di tutti. Fu Warhol a dire che a tutti spetta un quarto d’ora di celebrità. La Factory, una comune inventata e fondata dall’artista newyorkese, era un luogo in cui tutti facevano di tutto: dipingevano, giravano film, si divertivano e Warhol era il guru carismatico del suo gruppo. Egli vedeva la vita come unica, vera opera d’arte ed era convinto che imparare a vivere dovesse essere il vero obiettivo dell’uomo. Pensava che la bellezza fosse in ogni cosa, tutto stava nel saperla vedere. Non c’è interiorità nelle sue opere, perché la rifiuta.

È stato un artista portato alla semplificazione allo scopo di affrontare nell’arte le paure proprie e le altrui. Celebrity, semplificazione, riproducibilità e banalità di un’opera d’arte – tanto allergica al bisogno di esclusivismo quanto propensa verso quello di accessibilità - sono stati certamente i capisaldi di un intuito artistico, i cui effetti durano sino ai nostri giorni ma non credo che abbiano avuto davvero la forza di sostituire negli amanti dell’arte il valore riconosciuto di un talento pittorico. Il formidabile intuito di Warhol e il suo orientamento artistico si fermano un passo prima, restando una sorta di riflessione filosofica di tipo sociologico più che artistica o pittorica, anche se i suoi effetti arrivano fino ad oggi in termini di mentalità artistica. La sua originalità è indubbia ma è anche evocatrice di una freddezza spiazzante negli occhi del povero spettatore.

”Non ho forse ragione di dolermi di ciò che l’uomo ha fatto dell’arte?” – si potrebbe concludere, parafrasando le Lyrical Ballads (1798) di Wordworth...

   


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)