Arte
La fredda innovazione della video-art
The Cremaster cyrcle
di Matthew Barney
Lab Cinema CSC Palermo
e Fondazione Ente dello Spettacolo
di Margherita Lamesta
The Cremaster cyrcle di Matthew Barney è una saga epica che parte dal cremaster, ovvero il muscolo testicolare responsabile della determinazione sessuale tra maschio e femmina. L’artista, ex sportivo e modello, gioca di allusioni e rimandi che ruotano intorno alla tragedia greca e alla mitologia classica, come rinvia a miti e leggende di origine celtica. Un’operazione di video-art rivoluzionaria e innovativa, dall’impatto visivo che trova solo in Warhol il suo eguale ma dal risultato davvero stremante. E’ difficile da definire semplicisticamente bella o brutta - secondo una categoria dal sapore desueto in un’epoca post post modernista, che vede la polverizzazione dell’arte e del suo consumo a ritmi paurosamente vertiginosi.
Con un’estetica affrancata dal mondo dell’arte contemporanea, il regista si pone al centro dell’arte e del cinema, restituendo al suo pubblico un gusto materico fortemente esasperato e dall’impatto visivo che schiaffeggia lo spettatore e mette a dura prova il suo coinvolgimento attivo in termini di domande aperte. I punti di vista sono costantemente ribaltati, è un sorta di flusso dell’anima che potrebbe trovare solo in Joyce – con la sua sintassi scardinata - o in Musil - con la sua denuncia di alienazione ai danni dell’uomo e dei suoi interessi-qualità perduti in un vortice sociale distruttivo e senza scampo - il suo doppio nella letteratura.
Anche i cinque episodi giocano con il doppio e con il ribaltamento. Non in ordine cronologico ma nella successione di 4 1 5 2 3, il 5 resta centrale e ai suoi lati lo ritroviamo come risultato della somma, sempre per il gioco allusivo che rimanda ai cinque atti della tragedia greca, alle cinque discipline olimpiche dei giochi ateniesi, in omaggio al mondo classico, culla dell’arte, della filosofia e origine del teatro, ma anche ai nostri cinque sensi.
Le origini, il cremaster appunto, ecco cosa interessa Barney: la purezza di un momento non ancora contaminato e matrice stessa del doppio, del contrasto netto, del sacro e del profano, del bene e del male, della materia e dell’evanescenza, che lui legge anche in un assassino reo confesso - Gary Gilburne, presunto nipote illegittimo del mago Houdini - sulla cui biografia, non priva di fascino affabulatore, basa uno dei suoi viaggi onirici.
Rito, magia, esoterismo, folletti nordici, Parche, incontri e separazioni sofferte, dalla gestazione lunghissima, colori dalla connotazione opposta – il bianco che si vede è freddo, piuttosto che evocativo di purezza - con altrettanti ribaltamenti di posizioni tra la donna e l’uomo sono alla base di un linguaggio filmico. Il regista adegua la scrittura e la narrazione all’immagine, scardinandola totalmente nella sintassi logica o grammaticale, senza creare di proposito un sincronismo di facile presa o dalla comprensione semplice. Il risultato, tuttavia, non è sempre all’altezza di quel chirurgico e minuzioso lavoro di ricerca e di evocazioni coltissime che l’artista fa, se non altro, in termini di eleganza e di eco sulla sensibilità dello spettatore….ovvero detto: “molto rumore per nulla”.
È una forma d’arte aprioristicamente al di sopra e vuole dialogare solo con pochi, dimenticando che lo spettatore va interrogato e scosso ma anche coinvolto. Nonostante i forti passaggi visivi, alla fine si resta freddi e con la domanda aperta sullo scopo di simili elucubrazioni mentali, sia pur dalla fattura estetica innegabile e rivelatrice di un processo di ricerca indiscutibilmente scrupoloso.
Solo in the order, si ravvisa - almeno in un accenno - una successione narrativa inframezzata da protesi e contrasti estremi, tra corpi di donne bellissimi e metaforici umori maschili letti nella ricorrente cera bianca e rimandi classici ai giochi di seduzione uomo-donna. La crisi del maschio è profonda e lui cerca di difendersi, attaccando anche con brutalità o scegliendo piuttosto la bellezza di una modella privata delle sue splendide gambe a causa di un incidente, perché forse portatrice di una purezza ritrovata.
Va riconosciuto, comunque, che l’innovazione di quest’opera sta anche in un altro ribaltamento di posizioni: il produttore è ora il gallerista – la saga è stata presentata al Guggenheim di New York - e offre al suo pubblico una visione volutamente frammentata, sottraendola alla sala, per l’assenza stessa di continuità tradizionale a tutti i livelli, eppure molto evocativa della tradizione…almeno nelle intenzioni del suo ideatore.
Benché i filmati non sono portatori di giudizio da parte di Barney ed egli proponga sempre una visuale doppia, il giudizio tagliente dell’artista è, a mio avviso, all’interno dell’opera vista nella sua complessità. Il regista vuole di proposito restare solo nel mondo delle Idee platoniche, tradotto in pratica nell’elitario spazio della galleria d’arte, per non rischiare di confondersi con i più e per allontanarsi il più possibile dal genere umano… magari nascondendo una simpatia verso un ipotetico mondo alieno non troppo lontano.