racconto
La casetta delle vacanze
di Ruggero Scarponi
Mi ricordo bene di quando incontrai Peter. Fu durante una vacanza in Sardegna che i miei avevano voluto regalarmi dopo il conseguimento della licenza liceale. La località scelta era magnifica, ideale per rilassarsi dopo gli esami. Sorgeva sul versante orientale dell’isola, in un tratto di costa quasi disabitata, sovrastata da alte scogliere e macchia mediterranea. La casetta dove alloggiavo era di proprietà di una giovane coppia che passava buona parte dell’estate su una barca a vela in giro per il Mediterraneo. Erano appassionati d’immersioni subacquee e si pagavano i viaggi affittando l’abitazione durante le loro assenze. La casetta era costruita su un breve promontorio, quasi a picco sul mare. Di lato, a pochi metri dal portone d’ingresso, un sentiero scavato nella roccia conduceva più in basso a una caletta privata, orlata da una spiaggia di sabbia finissima con grossi ciottoli levigati. Subito alle spalle della casa iniziava la macchia, fitta e ricca di essenze profumate. Di notte vi s’ intuiva un fermento di vita selvaggia. S’udivano a tratti strani richiami di animali, sibili, fischi, fruscii e nel buio della selva non era difficile scorgere di tanto in tanto inquietanti bagliori, i grandi occhi gialli dei rapaci notturni. Per arrivarci, alla casetta, bisognava lasciare la provinciale e imboccare una stradina quasi sommersa dai ciuffi delle ginestre. Faticai a trovarla il primo giorno, nonostante le minute istruzioni fornite dal padrone di casa. Poi però una volta imboccata la giusta direzione si arrivava a un vecchio cancello, scrostato in più punti, varcato il quale, si trovava uno spazio dove lasciare l’auto, sotto i rami di due sughere centenarie. Una ricca vegetazione circondava la casa e mentre dalla strada provinciale non era possibile scorgerla perché situata su un piano inferiore, dal mare le ampie fronde degli alberi quasi la nascondevano del tutto. Vi si poteva accedere solo a piedi, dal parcheggio, scendendo una ventina di gradini tra due file di oleandri rosa. Era il paradiso che avevo sempre sognato. Sole, mare e una fragranza di vita naturale e di dolcissima quiete.
Al mattino, per esempio, dopo essermi alzato prendevo la colazione su una veranda esterna coperta da una tettoia di canne. Intorno, nessun rumore se non quelli della pura natura al risveglio. I gabbiani, già da qualche tempo in volo a scrutare le prede marine venivano a riposarsi di tanto in tanto sulle sporgenze del promontorio. Li osservavo divertito sembrandomi buffi, sulla terraferma, con la loro incerta andatura traballante. Poco dopo mi tuffavo nell’azzurro solitario della caletta. Oppure da qualche scoglio, lungo la costa. Passavo molto tempo in acqua attrezzato solo di maschera e pinne per godere la selvaggia bellezza del mare. Vivevo con poco. Qualche pesce che riuscivo a catturare con la lenza, le verdure che trovavo nel piccolo orto, poco discosto dalla casa e aperto sul blu del cielo che si confonde col mare e poco altro. Mi nutrivo molto, invece, di letture. Mi ero portato dietro una piccola biblioteca cui attingevo nei lunghi pomeriggi quando il sole bruciante ti spingeva a cercare riparo sotto l’ombra fresca degli alti pini marittimi.
Era quello, un riposo ideale. Immerso nella natura, popolavo la fantasia con le storie dei romanzi accantonati durante la preparazione agli esami di licenza.
Un giorno feci la conoscenza di Peter. Un bel cagnone dal pelo fulvo. Gli affibbiai quel nome in ricordo di un amico inglese. Mi sembrava avesse, negli occhi, la stessa espressione enigmatica. Peter arrivò come se fosse “intimo” della casa. Per prima cosa volle fare conoscenza. Si avvicinò senza timore, mi odorò per bene e poi mi si sedette di fronte, ansimante e con la lingua penzoloni. Sembrava in attesa di qualcosa. Ispirava un’istintiva fiducia, con le lunghe orecchie di bracco, la testa piegata di tre quarti e con gli occhi languidi. Allungai una mano per fargli una carezza. Giudicò la cosa soddisfacente e dopo essersi dato una grattata dietro l’orecchio destro, se ne andò per i fatti suoi.
Ritornò il mattino seguente mentre facevo colazione. Si avvicinò scodinzolando, gli occhi allegri, contento di trovarmi. Notai subito che era pulito e ben nutrito. Posò il muso sul mio ginocchio cercando, nel frattempo di scrutare se la mia espressione fosse benevola. Dopo averlo accarezzato sulla testa, sembrò appagato e mi si accovacciò ai piedi.
- E tu? – dissi – che ci fai qui? Non hai un padrone?
Mugolò contento.
Era evidente che stava nascendo un’amicizia e così un pomeriggio che era venuto a farmi compagnia mentre leggevo in mezzo ai pini, mi azzardai a chiamarlo. Si era accoccolato più in alto, sopra delle rocce tra cespugli di ginepro e pruni selvatici. Da quella posizione, supponevo, potesse controllare meglio il suo territorio. Lo guardai mentre annusava l’aria, soddisfatto. Sembrava una divinità della natura, fiero e sereno in quella posizione dominante. Traeva un grande piacere dai tanti odori provenienti dalla selva e che di sicuro era in grado di distinguere uno a uno. Erano odori di bestie selvatiche, scoiattoli, lepri, volpi e di tante piante aromatiche.
- Peter! – gridai.
Al richiamo si sollevò repentino sulle zampe anteriori, la testa ben eretta, in attesa di un comando, forse.
Probabilmente aveva un altro nome, ma poteva accettare di essere Peter se ero io a volerlo. Improvvisamente come se avesse meditato tutto questo, si slanciò verso di me. Lo accolsi in braccio e ci scambiammo le più grandi feste. Ora eravamo diventati davvero amici.
Ben presto ebbi conferma che Peter non era nuovo della casa e che aveva abitudini assai radicate. Di notte, ad esempio, compiva una sorta di giro di ronda per controllare che non vi fossero intrusi nella proprietà. Seguiva una specie di rituale. Per prima cosa scendeva a mare. Perlustrava attentamente la caletta, scrutava l’orizzonte immerso nell’oscurità e poi risaliva per certi sentieri nascosti nel folto della macchia. Alla fine se ne andava chissà dove per tornare l’indomani in orari i più disparati. Una notte, doveva essere molto tardi, lo sentii particolarmente agitato. A quell’ora di solito era già tornato al suo rifugio, in qualche villetta della zona. Lo sentivo andare su e giù dalla casa fino alla caletta. Vi restava un poco puntando lo sguardo verso il mare aperto per poi risalire inquieto, sembrava in attesa di qualcuno.
- Che ti succede Peter? – Gridai – Hai trovato qualcosa?
Decisi di andare a vedere. Cercando di non fare rumore, lo seguii fino alla spiaggia e mi misi a osservarlo da lontano.
Il cane, fissava insistentemente un punto sopra il mare, sembrava ansioso, emetteva sordi brontolii, finché a un certo punto non scattò in avanti come una molla. Lo vidi tuffarsi nell’acqua. Solo con qualche difficoltà mi accorsi che al largo, a luci spente, c’era un’imbarcazione.
Decisi di rientrare per attendere Peter sulla strada del ritorno. Dall’alto del promontorio non si vedeva nulla ma riuscii distintamente a sentirlo sulla spiaggia mentre si scrollava l’acqua di dosso.
Stavolta però, invece di tornare alla casetta, percorse sentieri a me ignoti e lo persi completamente di vista.
L’episodio mi sembrò subito piuttosto misterioso e mi lasciò dentro una certa inquietudine. Era evidente però che per il mio amico Peter non doveva essere una novità. Tuttavia non avevo la minima idea di quale relazione potesse esserci tra un simpatico cane e un’imbarcazione che procedeva di notte sotto costa a luci spente. Se lì sopra c’erano i suoi padroni perché mai navigavano a quel modo, al buio? E neanche potevo figurarmi qualche cosa di losco. Il luogo era così ameno e tranquillo che proprio non avrei saputo trovare un motivo di sospetto e d’altronde durante tutta la vacanza a parte quella visita notturna non fui disturbato da alcuno.
Tornai a dormire. Avevo mille pensieri nella testa ma ero deciso a non farmi influenzare da idee strane o da macchinose fantasie.
L’episodio di quella notte fu un fatto isolato. Per il resto tutto andò secondo il programma. Sole, mare, buone letture e la compagnia docile e discreta di Peter.
Purtroppo passati i quindici giorni me ne dovetti tornare a casa. Era tempo di pensare ai nuovi obiettivi. In autunno mi sarei iscritto all’università.
Mi dimenticai in fretta della Sardegna, della splendida casa e anche di Peter, preso com’ero a districarmi tra le pratiche d’iscrizione e di ammissione alla facoltà. Della vacanza restavano soltanto un vago ricordo e qualche conchiglia a far da soprammobile, un po’ triste, su una mensola di casa. Fu un giorno mentre ero immerso nello studio di un capitolo particolarmente noioso che distogliendo l’attenzione dal libro colsi la notizia diffusa al telegiornale. In un servizio video riconobbi subito la casetta delle vacanze in Sardegna. Una graziosa giornalista, microfono in mano, parlava proprio dal promontorio su cui venivano a riposarsi i gabbiani al mattino, davanti alla veranda dove prendevo la prima colazione. Raccontava i fatti mentre si scorgevano gli elicotteri dei carabinieri che sorvolavano la zona e le motovedette della guardia di finanza che pattugliavano la caletta poco a largo della costa. Era stata sgominata una banda di trafficanti di diamanti. Così diceva la giornalista con dovizia di particolari. I personaggi, tutti insospettabili, figli delle più facoltose famiglie della zona, si erano dati al crimine, desiderosi di movimentare le loro giornate oziose e senza pensieri. I giovani si muovevano in barca a vela e ricevevano in mare aperto, dai complici, le pietre preziose, che poi affidavano a un cane nuotatore per metterle al sicuro in un luogo segreto nei pressi di una villetta solitaria. Restai a bocca aperta nell’apprendere che il buon Peter altri non era che un complice dei contrabbandieri e che aveva trafficato diamanti per milioni di euro. E che probabilmente io stesso, senza saperlo, avevo dormito per quindici giorni in una casa che doveva essere la cassaforte dei contrabbandieri. E d’altronde a chi sarebbe venuto in mente di cercare il tesoro in una casetta per vacanze?