racconto
L’Omelia
di Ruggero Scarponi
La storiella è vera (o almeno per tale mi è stata raccontata). Una domenica nella chiesa parrocchiale si trovò a dire messa un giovane sacerdote brasiliano. Era un tipo allegro, pieno d’entusiasmo che già in altre occasioni si era messo in evidenza per un modo tutto suo di commentare il Vangelo inserendovi continuamente considerazioni personali e aneddoti pescati dalla vita religiosa.
L’assemblea ascoltava con un misto di simpatia e di perplessità. Simpatia scaturita dalla carica di ottimismo che il religioso sapeva trasmettere e perplessità per il suo modo di esprimersi, piuttosto inconsueto. Forse sarà stato per via della saudade, fatto sta che non poteva far a meno, ad ogni predica, di tirare in ballo il calcio o la samba e non di rado gli capitava, preso da un misto di fervore religioso e di esuberanza giovanile di scendere dall’altare per accennare un tiro cross o addirittura un passo di danza. Si capiva che per lui, quelle manifestazioni, non avevano nulla d’irriverente, nella sacralità del rito, ma al contrario costituivano modelli di riferimento nelle varie esperienze della vita. Tuttavia quella domenica la sua omelia, più austera del solito, dopo la lettura evangelica suscitò nei fedeli una reazione che non aveva previsto.
- Cari fratelli- esordì,- oggi voglio raccontarvi un aneddoto che mi ha fatto comprendere come agisce la misericordia di Nostro Signore.
Il tono era convincente e tutti si fecero attenti.
- Dunque – continuò – dovete sapere che noialtri giovani religiosi abbiamo piacere di guidare l’automobile, - e qui non si trattenne dal gesticolare come avesse avuto un volante tra le mani - tutti – continuò - appena possiamo, prendiamo la patente per metterci a servizio della comunità per le esigenze della vita quotidiana. Una delle cose che ci viene richiesta, ad esempio, è di accogliere o di accompagnare ospiti e confratelli alla stazione ferroviaria quando si trovano a transitare nella nostra città. – Così dicendo era già sceso dall’altare per mettersi a percorrere in su e in giù la navata della Chiesa intendendo mimare l’andirivieni dei confratelli - Un giorno – disse - il Padre Superiore mi chiese di accompagnare due suore in partenza per le missioni. Naturalmente fui molto contento di poter rendere un servizio a quelle brave sorelle in Cristo. Purtroppo il Padre Superiore me ne aveva informato un po’ in ritardo e per raggiungere in tempo la stazione avrei dovuto, come dire, correre. Non solo, ma avrei dovuto sbrigarmi anche perché subito dopo avevo un altro impegno pastorale cui non potevo assolutamente mancare. Era indispensabile quindi accompagnare le care suore il prima possibile.
L’assemblea, attenta, aveva seguito sin qui il racconto suggestionata dai toni di voce e dai gesti del sacerdote che tendevano a esprimere l’obbedienza verso il superiore e l’ansia di combinare tutti i suoi impegni.
- Appena salite in macchina – proseguì - raccomandai le consorelle di non spaventarsi se avessi guidato con un po’ di brio, ero pratico e potevano stare sicure che non avrebbero corso dei rischi.
Quelle mi fissarono angeliche e fiduciose; subito dopo però, sorridendo, trassero fuori dalle tasche il rosario e si raccolsero in preghiera.
Mi buttai nel traffico cittadino sfruttando tutti i trucchi che avevo appreso nei due anni passati a Roma. Come previsto, sorvolando su semafori rossi, stop e sensi unici giungemmo alla stazione ferroviaria giusto in tempo per consentire alle nostre religiose di prendere il treno all’orario fissato.
Tutto si era svolto nel migliore dei modi e io mi sentivo orgoglioso di aver reso un servizio così umile e importante al contempo.
Al momento di farle scendere dall’automobile e di scambiarci i saluti notai sui loro visi un evidente pallore e un leggero tremolio delle mani. Contro ogni realistica previsione, avevo impiegato solo quindici minuti per attraversare la città. Ai loro sguardi smarriti mi schermii dicendo che non era merito mio ma della volontà di Dio se tutto era andato per il meglio. Detto questo mi ricordai dell’ altro impegno di cui vi ho già parlato, per cui mi affrettai a salutare le suore e mi misi nuovamente alla guida. Purtroppo il traffico era aumentato e dovevo procedere lentamente. Dopo pochi metri, però, dallo specchietto retrovisore, mi accorsi con stupore che le consorelle continuavano a salutarmi con grandi cenni.
Erano davvero riconoscenti, pensai, continuavano a ringraziarmi a rischio di non arrivare in tempo al treno. E stavo per fermarmi per invitarle ad affrettarsi alla stazione, quando, sbirciata l’ora da un orologio pubblico, mi resi conto che anche io rischiavo di far tardi in parrocchia.
Solo a quel punto mi accorsi di quanto stava accadendo. Il Signore, cari fratelli, mi aveva illuminato nella sua infinita misericordia, impedendomi di compiere un grave, pur se involontario, misfatto. Era accaduto che a una delle due religiose, al momento di salutarci mentre scendevano dalla macchina e senza avvedersene, era rimasto impigliato il cingolo della veste nello sportello che si era richiuso. Quindi essendo io ripartito con l’auto, la poveretta, per non cadere a terra e rischiare di essere trascinata sull’asfalto era stata costretta a inseguirmi nel tentativo di restare in equilibrio.
Purtroppo, tutto preso dalla preoccupazione per l’altro impegno, in parrocchia, equivocai i suoi richiami, credendoli dei saluti, rischiando in tal modo di combinare un bel guaio.
Evidentemente il Signore aveva voluto donarmi una grande lezione.
Mi fece comprendere come l’egoismo e la vanità, a volte, possano travestirsi da virtù. Mentre dovremmo sempre riservare al fratello il nostro impegno primario.
Qui il sacerdote brasiliano, a capo chino e con una mano sul cuore fece una pausa di meditazione. Non si era accorto, purtroppo, preso com’era dal racconto che l’intera assemblea era scoppiata in una risata prima sommessa e poi irrefrenabile.
Il buon religioso, risollevato il volto, guardò allibito i fedeli.
Evidentemente l’episodio della suora agganciata per il cingolo, all’automobile in corsa, era stato da lui vissuto e giustamente, come un evento drammatico che solo il dubbio ispiratogli da Dio aveva evitato che si trasformasse in tragedia. Per i fedeli, invece, il racconto che conteneva indubbi elementi tragicomici, narrato con tono ispirato e drammatico aveva scatenato un’ irresistibile ilarità che non si esaurì se non al termine della funzione, con fatica e con le lacrime agli occhi.
Vispa
di Agnolo Camerte
Compiti finiti! Carletto pensò che era ora di andare a chiamare Cesarino per una passeggiata. Scese in strada e bussò al portone chiedendo di Cesarino. Aveva finito i compiti anche lui, quindi si poteva andare a spasso….Appena sceso in strada Cesarino si voltò giù verso l’arco come incantato. Ma che stava guardando.. non c’era nessuno…Carletto allora gli chiese che guardi? Ma niente, stavo leggendo Zanna Bianca quando mi hai chiamato, pensavo ai cani. Non capisco disse Carletto, che vuoi dire?
Ma niente, facevo un raffronto tra Zanna Bianca ed i cani di quei cacciatori che abbiamo visto arrivare con a spalla due pertiche, una con appese una diecina di lepri e l’altra piena di starne e pennuti vari. Attorno ai cacciatori, tra i quali c’era tuo padre, quattro o cinque cani da caccia, festosi ed eccitati come un gruppo di ragazzini dietro ad un pallone….Ti ricordi? Ma certo! C’era anche la cagnetta di mio padre Vispa….Come sembravano felici quei cani! Si vedeva che erano stanchi dopo una giornata di caccia in montagna, ma non più di quanto non lo fossero i loro padroni, anzi sembrava che le loro energie fossero state appena intaccate. Mai visti tanti cani così festosi e attentissimi ai comandi dei loro padroni. Letteralmente sembravano pendere dalle loro labbra e dai loro gesti . Bastava un gesto, un comando, un passo, che tutti drizzavano le orecchie, pronti ad ubbidire. Vispa poi era una cagnetta straordinaria, neanche di razza pura, era un bracco pointer, ma con un fiuto leggendario. Sembrava che anche gli altri cani lo sapessero che era la più brava; lei non sbagliava mai ed era capace di tenere a freno anche i cani più irrequieti, quando aveva fiutato la selvaggina.
Zanna Bianca in confronto a Vispa sembra solo un povero cane sfortunato, ma eroico….Però se ci pensi caro Carletto, molti cani mi sembrano sfortunati ed eroici per riuscire a sopportare noi umani che, soprattutto in città, li abbiamo ridotti come poveri oggetti da salotto che devono adattarsi ai nostri comportamenti umani, con la scusa che loro sono i migliori amici dell’Uomo. Povere bestie segregate negli appartamenti, con poche ore d’aria come i carcerati, o peggio abbandonati sui balconi a guaire tutto il giorno.
Il cane è trattato come il migliore amico dell’uomo se può correre a suo piacimento, fino a sfiancarsi su un prato, in montagna, a caccia, seguendo un’asta anche solo per divertirsi. Il cane ha quattro zampe per correre , un naso per annusare il vento e sentirne gli odori, per andare a caccia….e per stare vicino ad un padrone che sappia gestire e sviluppare queste sue capacità naturali. Con questo addestramento un cane può sentirsi il migliore amico dell’uomo e viceversa.
Vispa era una grande cagnetta, una grande cacciatrice, la migliore dei concorsi provinciali e regionali; a lei non sfuggiva la più flebile traccia, anche se la giornata era calda e secca, se c’era da scovare animali da penna o una bella lepre, a lei non sfuggivano. Anche se prima di lei fossero passati alla cerca una diecina di cani…che non avevano sentito nulla.
Quando “puntava” un’animale, i segnali, per il padrone che la seguiva, erano due: si immobilizzava improvvisamente e a metà coda rizzava il pelo, formando un anello di peli dritti.
Tutti la ammiravamo, anche perché era una cagnetta mansueta, allegra e ubbidiente; aveva il suo padrone, idolo, semidio che era tuo padre. Non ricordi quella volta che la fece sedere a comando di fronte a lui, le mise una fetta di ciavuscolo sul naso, e Vispa se ne stava li immobile; poi tuo padre si mise a declamare una poesiola ed ad un certo punto e solo allora, Vispa si mangiò in un attimo quella fetta……Insomma lui gli parlava e quella ubbidiva molto di più e più velocemente di quanto non facessi tu! E certo! Certi cani sono particolarmente intelligenti e capiscono il padrone in modo sorprendente. Non ti ricordi Lampo quel pastore bergamasco (secondo me uno dei cani italiani più belli che conosca), si quello con un occhio di un colore diverso dall’altro…..Ti ricordi che lo abbiamo visto all’opera con il suo gregge su in montagna? Il padrone gli parlò come ad un cristiano dicendogli vai su e porta giù le pecore(erano un centinaio) quello drizzò le orecchie e partì di corsa ad eseguire il lavoro, eseguito in pochissimo tempo.
Carletto commentò affermando che se il cane vive accanto al padrone in modo continuativo, non solo è un cane felice, ma fa anche bene al padrone.
Vispa era trattata da cane, non come un soprammobile di casa dove le era proibito entrare. Aveva la sua calda e spaziosa cuccia, vicino al forno, ed era accudita e accarezzata da tutta la famiglia; con me, diceva Carletto, ci giocava, ma con un certo distacco: appena vedeva mio padre, io non esistevo più. Tuttavia quando in una tiepida giornata di primavera partorì la sua cucciolata, appena le fu possibile, uscì dalla cuccia e mi venne a chiamare facendomi capire di seguirla. Mi presentò così la sua cucciolata ed io ero l’unico che poteva avvicinarsi, oltre al padrone, senza che lei ringhiasse. Naturalmente poi mi ritrovai a terra anche io a giocare con quei cagnolini che odoravano di latte e che mi saltavano addosso per giocare, sotto l’occhio attentamente vigile di Vispa. Naturalmente venuto il tempo tutti quei cagnolini di tanto pregiata madre furono o regalati agli amici cacciatori, ma anche venduti a caro prezzo. Ti ricordi Cesarino che mio padre si tenne solo Diana? Era la più bella e la più forte e sembrava la più attenta a seguire gli insegnamenti della madre. Certo combinò qualche errore dovuto all’inesperienza, come quella volta che inseguì una starna sino in fondo alla montagna. Riuscirono a recuperarla, per poco. Poi crescendo avvicinatasi all’anno di età dimostrò di avere un naso straordinario, tenuto sempre alto e capace di sentire ogni traccia. Ti ricordi Cesarino? Era l’Anno Santo, il 1950 mi pare, e tuo padre diede Diana ad un signore abruzzese per un sacco di soldi. Lui si potè così comperare la Fiat 1100E..quella con la quale quasi tutti noi ragazzi del quartiere abbiamo imparato a portare la macchina. La chiamavamo la trucchepolle, figlia di Diana…Quella macchina che quando il motore si scaldava sulle salite di montagna, si fermava perché la membrana della benzina si appiccicava. Allora bisognava bagnarla per raffreddarla, con ogni mezzo, altrimenti non ripartiva.
Allora la trucchepolle, figlia di Diana, figlia di Vispa, è restata, grazie a due cani eccezionali, tra i ricordi più belli di tanti ragazzi senza patente…