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Fotografia

Galleria San Fedele – Milano

Da Joel Meyyerowiitz
a Francesco Comello

Lo stupore di fronte alla meraviglia del colore
Respirare l’aria di atmosfere sospese nel tempo


All’interno del ciclo triennale di cinema, musica, arti figurative sulla drammaturgia occidentale, il Centro Culturale San Fedele di Milano ha organizzato due mostre fotografiche di prestigio: la prima, a cura di Giovanni Chiaramonte e Andrea Dall’Asta SJ dal titolo “Sightseeing Un sentimento della vita” – foto di Joel Meyerowitz con una conversazione tra Silvano Petrosino e l’autore; la seconda, “Oshevensk – foto di Francesco Comello, a cura di Gigliola Foschi.

Joel Meyerowitz ha scoperto la fotografia come destino a New York nell’incontro con Robert Frank. Nelle vie della metropoli, emblema del nuovo mondo costruito dall’uomo, Meyerowitz ha voluto essere un testimone della commedia umana nei gesti degli affetti quotidiani. Da subito, - scrive Giovanni Chiaramonte - accanto al bianco e nero, in cui speranza e disperazione s’intrecciano, ha utilizzato la forma del colore come rivelazione della forma dei sentimenti. Così, quando nel 1978 decide di passare alla rappresentazione del mondo in grande formato, la commedia dell’uomo si trasforma nello stupore di fronte alla meraviglia del colore, che nell’ora del tempo si rivela come respiro di una vita senza fine: luce che ti chiama per nome.

Nello studio di Cézanne, Meyerowitz scopre che le pareti della stanza in cui il pittore dipingeva erano grigie e che solo in quell’assenza della luce il colore si poteva rivelare come forma che genera l’esistenza di ogni cosa nel mondo.

Le nature morte di Meyerowitz, realizzate nello studio di Cézanne, rivelano così che le immagini di questo grande fotografo americano si pongono come paesaggi interni e interiori dello spirito umano.

La seconda mostra ci porta a Oshevensk, un nome che appare remoto, lontano, mai ricordato e mai dimenticato. Nessuno, presumibilmente, ha sentito parlare di questo villaggio, eppure esiste. Indicato solo sulle carte più dettagliate, si trova lassù, nella fredda Russia del nord, 650 chilometri a est di San Pietroburgo.

Eppure, una fredda mattina d’agosto, Francesco Comello lo ha raggiunto una prima volta, per poi tornarci ancora e ancora. Voleva rinsaldare i rapporti con la gente semplice e generosa che vi abita, capace di amare la natura del Nord nonostante la sua implacabile durezza. Voleva tornare a respirare quell’aria, quelle atmosfere sospese nel tempo. Desiderava farsi parte di questo umile villaggio rurale, sorto nel XV secolo attorno a un monastero fondato da un monaco che poi ha attribuito il proprio nome al villaggio stesso.

Arrivare a Oshevensk è stato per Comelli “compiere un salto indietro nel tempo, è stato come entrare dentro le suggestioni di un film di Tarkovskij, o in un romanzo di Tolstoj” - così ci racconta -. Eppure è difficile non pensare che anche qui il comunismo dell’era dei Soviet non sia intervenuto in modo violento: il monastero, infatti, è stato in parte distrutto; la religione proibita; forse qualcuno sarà stato mandato ai lavori forzati; forse saranno stati eliminati i kulaki spiegando che questi proprietari terrieri “non erano uomini” (come scrive Vasilij Grossman).

Ciò non di meno, lentamente, a Oshevensk tutto è tornato come nei tempi di sempre, quando non si parlava di rivoluzione, ma solo di fede, affetti famigliari, feste da celebrare assieme. La luce è tornata a splendere nelle tenebre: quella luce di una vita semplice, tenace, dove la religiosità fa parte della vita, dei gesti quotidiani come il mangiare e il dormire. Dove non ci si chiede se credere o no in Dio, ma ci s’impegna a servirlo.

In sintonia con le atmosfere di questo paese, le fotografie di Francesco Comello sono rispettose e quasi ovattate, a loro volta anacronistiche e volutamente non allineate con le tendenze contemporanee del reportage. Nel suo lavoro, infatti, non si trovano immagini dure, volutamente espressive, al limite della falsità. Lui usa il classico bianco e nero con delicatezza. Non impone la sua presenza, ma lascia che l’obiettivo della sua macchina diventi un sensore capace di accogliere piccole storie quotidiane, atmosfere, emozioni. Nel suo sguardo non c’è nessun senso di superiorità e neppure di lontananza: non scopre Oshevensk, la ri-trova come una parte di sé, come un luogo dell’anima, dove riavvertire il senso della vita che scorre lentamente. Mai nostalgico, il suo lavoro ci esorta a riscoprire la lezione del passato e della semplicità, per provare a dare un senso nuovo al nostro stesso futuro.(GF).

sanfedelearte@sanfedele.net


   


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