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Racconto

Il Premio Nobel

(seconda parte)

di Ruggero Scarponi

Il professore che era rimasto a guardare, assai contrariato e muto per la rabbia, fu preso da un impeto violento. Lo vidi stringere i pugni e serrare le labbra e poi inseguire la ragazza fin dentro la camera da dove arrivarono gli strepiti di una sgradevole scenata. Il professore era evidentemente in imbarazzo per il comportamento villano di Nadja e voleva a tutti i costi riportarla sotto il suo controllo. Questa, invece, dal tono che usava, non voleva intendere ragione e anzi rintuzzava gli attacchi del Professore urlando ancora più forte. Poi improvvisamente tutto finì.

Restammo, nella sala da pranzo, ancora seduti al tavolo, ad aspettare, io, l’autista e l’oste che aveva voluto scambiare qualche parola con me che essendo straniero gli suscitavo curiosità. Comunque dopo aver bevuto anche lui diversi bicchierini di vodka era sprofondato in un sonno pesante. Dalla camera al piano di sopra non giungeva più alcun suono. A questo punto non avendo nessuno con cui parlare, mi guardai un po’ intorno e poi decisi di schiacciare un pisolino, almeno avrei ingannato l’attesa per la ripartenza. Dopo circa un’ora, infatti, il professore scese nella sala. Io ero già sveglio e non sapendo cosa fare stavo passando in rassegna le travi di legno del soffitto. L’uomo si avvicinò, farfugliò qualche parola di scusa e poi si mise a parlare fitto con l’autista. Finalmente dopo un altro quarto d’ora si decise a scendere anche Nadja, bella, riposata e ancora più mollemente ancheggiante. Il professore pagò il conto e riprendemmo il viaggio. Dal finestrino dell’auto vedevo scorrermi dinanzi le sterminate distese di alberi delle foreste ungusceze. Gli stessi alberi e le stesse foreste che erano state cantate in tutte le epoche dai rapsodi caucasici.

Sui monti, in alto scintillava nell’ultimo sole del giorno la neve. Si scorgevano tra le rocce persino gli stambecchi e Nadja con la massima disinvoltura si era addormentata sulla mia spalla.

Dormiva pesantemente e russava come un camionista. Si svegliò solo al termine del viaggio.
A tarda sera giungemmo alla mitica città di Bakhaar la regina della via della seta. L’architettura era fantastica e sembrava di essersi calati in un racconto delle Mille e una Notte. Uomini nei tradizionali abiti orientali sostavano a fumare sotto i portici di edifici con le cupole a cipolla e con le finestre a sesto acuto. Le poche donne che giravano erano coperte dalla testa ai piedi da un abito che non lasciava scorgere di loro neanche gli occhi. M’immaginavo di veder spuntare da un momento all’altro dietro le colonnine di qualche balcone arabescato la bella Sharazade. La residenza del nostro poeta era oltre la città, nella campagna, tra i campi di girasoli e le foreste di abeti. Vi arrivammo che era quasi notte. Lukhas Shakaswili ci attendeva sul cancello d’ingresso della villetta che la società dei poeti gli aveva regalato dopo che cinque anni prima era stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Era seduto su una panca costruita con un pezzo di tronco d’albero appoggiato su due bassi cavalletti mentre fumava le terribili sigarette locali. Colpiva la sua figura. Non era alto, anzi, leggermente tarchiato con una foresta di capelli grigi, pettinati all’indietro, sopra la fronte alta. Ma gli occhi allungati e nerissimi gli conferivano un’aria nobile e severa. I lineamenti del volto, squadrati, contribuivano a suscitare l’idea di una virilità forte e volitiva. Indossava pantaloni di velluto di un color marrone chiaro e una camicia di pesante flanella grigia.

- Benvenuto all’altro mondo – mi disse sarcastico stringendomi la mano con calore –

- Grazie risposi – e stavo per aggiungere tutto il discorsetto che avevo imparato a memoria per ringraziarlo dell’ospitalità, che mi sentii gelare da un:

- Lascia stare, non serve!

Subito dopo stringeva in un abbraccio fraterno il professore ricoprendolo di parole affettuose. E poi Nadja. L’enfasi del saluto, stavolta, era decisamente inusuale. Almeno per i nostri standard. Lukash secondo i miei calcoli doveva avere almeno sessant’anni, Nadja, non più di ventitré, ventiquattro. Ma il loro abbraccio era più che confidenziale. Il Professore invece sembrava abituato ad assistere a quel genere di effusioni e si avviò senza problemi dentro casa. Cosa che feci anch’io per non trovarmi d’impaccio in quella situazione. Un domestico, un tipo ossequioso e sorridente che portava un berretto di astrakan, piccoli occhiali spessi e con la pelle del viso che sembrava cuoio brunito, s’incaricò di prendere il mio bagaglio e mi condusse al primo piano della villa, dove era stata sistemata la mia stanza. Era già tardi ma fui avvisato che Lukash aveva deciso di far servire la cena. Ero molto stanco e ne avrei fatto volentieri a meno ma il poeta fu irremovibile:

- non può fare me quest’affronto, tu capisce?

Si capivo, ma il tizio cominciava a darmi sui nervi. Tra l’altro continuava a flirtare con Nadja davanti a tutti e io mi domandavo dove fossi capitato, che razza di personaggio fosse questo Lukhas.
- E questo è il poeta nazionale unguscezo – pensavo – ma come può essere? Uno così volgare e maleducato?

A cena si comportò come Nadja. Erano forniti ambedue di una voracità animalesca e furono capaci di tracannare una quantità di bicchierini di un liquore forte e secco, forse un’acquavite di prugna che io dopo averne assaggiati solo due faticai a mantenermi lucido.

Terminata la cena Lukhash scambiò un rapido gesto d’intesa con il domestico con il berretto d’astrakan. Questi sparì dietro una porta per ricomparire poco dopo recando in mano un kamancha una sorta di violino utilizzato nella musica popolare.

In men che non si dica il padrone di casa aiutato dal domestico e dal professore, spostò sedie e tavoli in modo da ricavarne uno spazio abbastanza ampio. Subito dopo il domestico impugnò il violino intonando una melodia lenta e struggente. Conoscevo bene quella musica che avevo avuto modo di ascoltare in un teatro a Roma durante un festival dedicato alla cultura dell’Asia centro-meridionale, ma in ogni caso sentirla suonare da quell’omino un po’ rattrappito e a migliaia di kilometri da casa mi suscitò una certa emozione. Poi come una folgore all’improvviso iniziò una cadenza rapida e fortemente ritmata. A quelle note, come per un segnale convenuto il professore guadagnò il centro della sala con un gran balzo. Cominciò a piroettare su se stesso allargando le falde della giacca come due ali mentre teneva le braccia aperte. Il professore era alto e asciutto ma durante quella danza sembrava quasi immateriale tanto era veloce. La musica si diffondeva ovunque nella casa, creando infinite suggestioni e io nonostante che il professore indossasse abiti occidentali, non potevo fare a meno di immaginarlo in costume cosacco. Mi sembrava di trovarmi in un accampamento nel mezzo delle montagne caucasiche durante una festa popolare. Se non fossi stato così poco versato per la musica di certo, mi sarei lasciato trasportare ad accompagnare la danza con il battito delle mani. Di colpo, il professore s’interruppe dopo una piroetta per lasciare spazio a Nadjia. Questa con la testa alta e lo sguardo fiero, quasi di sfida, iniziò a spostarsi tutto intorno alla stanza con passi corti e velocissimi. Con le mani, eseguiva una danza misteriosa, quasi una trama, fatta di agili contorcimenti, forse stregati, pensai, particolarmente conturbante, e senza mai perdere il tempo della musica che si era fatto incessante. In fine si gettò nel vortice anche Lukhash. Non mi aspettavo che fosse tanto agile e vigoroso dopo la cena abbondante e i numerosi bicchierini di acquavite. Pure si esibì in una serie di salti ripetuti per ricadere ogni volta a terra sulle ginocchia e ripartire, poi, agile e sicuro con giravolte e nuovi balzi in alto. Ogni volta accompagnava movimenti e ritmi battendo le mani tra i palmi e sulle cosce.

Infine, insieme al professore iniziò una danza di corteggiamento per Nadjia. Eseguiva i passi talmente rapidi che era difficile persino coglierne l’incredibile varietà. Puntava il tallone, si alzava sulle punte, colpiva le caviglie con il palmo della mano, mentre continuava a girare intorno alla ragazza, senza darle tregua e costringendola a ritirarsi ora di qua ora di là come per tentare di sfuggire all’assedio dell’amante. Ma stretta dal professore da una parte e dal Lukhash dall’altra Nadjia, all’improvviso, con uno scatto repentino uscì dal cerchio lasciando i due uomini, beffati, viso contro viso. Battei le mani spontaneamente e dopo un attimo, il tempo necessario di riprendere fiato, i tre ballerini al centro della stanza tenendosi per mano mi riverirono con un grazioso inchino.

Ci ritirammo ben oltre la mezzanotte. Non dovetti esercitare la fantasia per comprendere come Lukhash si fosse portato in camera la ragazza.

- Ma sono animali! – esclamai tra me indispettito - Altro che “Atene del Caucaso”, questi sono dei selvaggi arrapati!

E non riuscendo a prendere sonno mi dedicai all’esplorazione della piccola biblioteca che avevo in camera. C’erano tutti i libri pubblicati da Lukash.

Ne sfogliai uno a caso. Erano poesie d’amore. Erano belle. Oh! Come sapeva esprimere il sentimento amoroso! E in così tante sfumature! E sapeva penetrare le anime degli amanti fin nel profondo. La passione, la trepidazione, l’attesa. E poi i segreti pensieri, i sussurri, i sospiri. Si capiva come fosse ossessionato dalla ricerca di una verità fondamentale, primigenia. Voleva esplorare senza compromessi l’amore e l’ansia di amare. Cercava di capire Lukhash, come se la poesia potendo accedere a verità nascoste costituisse la chiave del mistero. In alcuni casi sembrava perfino brutale nell’esplorare l’animo umano. Si interrogava, schietto e freddo e altre volte quasi accorato, su cosa sostenga veramente il sentimento amoroso. E’ l’ansia di possesso? E dove, a che punto, quando l’egoismo cede il passo alla negazione di sé per trasfigurarsi nell’atto di donazione? Ma bisognava conoscere tutto il travagliato percorso alla base della sua complessa poetica per non essere travolti da alcuni versi che ricordavano le copule animalesche, nella loro nuda essenzialità.

Quanta sapienza doveva sostenere la violenta immediatezza di quei versi, scarni come le pietre! Conoscevo la poesia di Lukhash, per averla studiata all’università. Ma trovarmi a leggere i suoi libri in casa sua mi faceva uno strano effetto. Più leggevo e più mi sembrava di conoscerlo. E in fondo non volevo ammettere con me stesso che l’iniziale antipatia che avevo provato per lui non era altro che sciocca gelosia. Cercai affannosamente in quelle pagine che stavo scorrendo se ci fosse rappresentata anche lei, Nadja, la sfrontata dea dell’amore. Stavo per arrendermi quando m’imbattei in una poesia di pochi versi ma inequivocabile.

Per un istante provai a pensare a cosa potesse provare Nadja leggendola. Ma poi riflettei che comunque non avrebbe influito neanche un poco su una come lei che se ne andava in giro ignara e sicura della sua femminilità. Anzi mi soffermai su un pensiero quasi comico. Immaginai Lukhash che scriveva quei versi e Nadja che dopo averli letti superficialmente, magari li accantonava con indifferenza tra gli sbadigli e forse buttando giù qualche bicchierino di acquavite.

Ma era già molto tardi, tra poco avrebbe cominciato ad albeggiare.

Mi addormentai sereno.

(Continua la prossima settimana)


Racconti d’altri tempi  

La Vescia

di Agnolo Camerte

Nei paesetti, dove tutti si conoscono e tutti sanno tutti gli affari degli altri, era bella la vita vissuta insieme.

Ci si relazionava, si parlava, si conviveva, si discuteva, si andava in piazza, sull’aringolo (parola dialettale che deriva dal greco agorà, piazza) si rideva, si scherzava, si corteggiavano le belle ragazze. Loro non passano mai di moda per fortuna!

Poi c’era la vasca (passeggiata) delle 18, quella dopo lo studio. Dove? Ovviamente sull’aringolo, dove ragazzi e ragazze si incontravano, spesso attentamente sorvegliati dai genitori!

Poi c’era il cinema, ma non sempre, perché costava; qualche festa da ballo a carnevale nel teatro, serviva a risollevar lo spirito per parecchi mesi...

La noia tuttavia sonnecchiava sovrana in certi momenti. Serviva però anche a riflettere.

Non esistevano insomma grandi distrazioni, non c’era tanto da fare se non aguzzare l’ingegno per combinare qualche cosa di divertente.

A noi studenti di legge, la fantasia non mancava, per cui il mio gruppetto decise di cimentarsi in qualche trovata atta a rallegrar lo spirito. Scoperto che lo spirito umano è credulone ed è portato a bersi tutto, se la fandonia è presentata in modo credibile, il gruppo dei “Fandonia o Vuscia” si mise all’opera.

Prima di tutto bisognava sveltire un po’ le povere matricole, dovevano sostenere un pre esame per vagliare se erano a conoscenza di tutte le nefandezze di noi umani... .poi veniva loro rilasciato un papiro con tanto di giudizio di merito che il più delle volte veniva redatto dal nipote di un alto prelato... Un vero capolavoro boccaccesco molto apprezzato da tutti...

Superato il primo scoglio, dovevano superare l’esame di “Diritto Ferroviario”.

L’esame , che era una burla, sembrava vero, tanto che ci sono cascati tutti; chi non sapeva rispondere esaurientemente alla domanda” mi dica quali rapporti intercorrono tra il capotreno e la moglie del comandante del ferry boat” veniva bocciato... L’esame era pubblico...


La fandonia più riuscita capitò per caso... al passaggio di due aerei supersonici, si sentì un forte bang sonico. Noi eravamo ai giardini, alle prese con un potente binocolo marino, atto più che altro a guardar le stelle in gonnella... Stavamo cercando sulla montagna la “nocetta”(capanno) di Pietruccio costruito per sparare alle allodole. Il tetto di lamiera cominciò a brillare al sole... .Immediatamente dopo il bang sonico quel matto di Piero incominciò a strillare “correte, correte, è caduto è caduto, si vedono le lamiere... ”

Subito si avvicinò un ragazzo soprannominato “Vuscia” letteralmente un maestro nel dire bugie, anzi un vero artista, capace di farti credere che gli asini volano. Ebbene si mise anche lui a gridare è caduto l’aereo, è caduto l’aereo, correte, correte, lassù, sulla montagna, luccicano le lamiere... Un’attore nato perché in un attimo quelli che stavano ai giardini, se li ritrovò attorno, tutti a guardare verso quel luccichio lontano... Convinti in breve di vedere i resti dell’aereo.

E’ incredibile ma vero, la bugia, come la calunnia è un venticello che si spande... in questo caso impetuosamente.

Non so come, ma in men che non si dica tutta la città si mobilitò per andare a vedere in montagna l’aereo caduto. Partirono i vigili urbani, i vigili del fuoco, i carabinieri, e quanti avessero un’auto marciante. L’incrocio in montagna risultò inagibile perché intasato dalle macchine, lì bloccate da un groviglio inestricabile.

Era persino carnevale, e a carnevale, lo sanno anche i sassi, ogni scherzo vale.

Eppure Vuscia, il più bugiardo che ci sia, nonostante fosse conosciuto per questa sua amena virtù di combinare scherzi psicologici assolutamente credibili, riuscì a mandare in montagna circa quattromila curiosi, con il plauso ed il ringraziamento dell’oste che aveva la sua cantina ai piedi della salita.

Senbra che molti, per digerire la burla, si fermarono da lui per bersi anche un quarto e una gassosa.


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)