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Racconto

La Confessione

di Ruggero Scarponi

Il caldo tropicale era esasperato da una pioggia incessante che non recava refrigerio ma contribuiva a rendere insopportabili l’umidità che impregnava ogni cosa, gli insetti assillanti, i respiri pesanti. L’ospedale era avvolto da una nuvola vaporosa che sfumava e nascondeva le linee dei fabbricati e degli alberi e tutto appariva, indefinito, confuso. Visto così dall’alto il piccolo dispensario, sembrava un’escrescenza, una piaga in suppurazione sul punto di essere inglobato dall’oceano verde della foresta.

Il fango, continuamente rinnovato dalle precipitazioni, invadeva ogni cosa. Entrava dappertutto. L’umanità stessa che affollava e assediava le misere baracche dell’associazione umanitaria era fango. Una massa indistinta e pulsante che irradiava dolore. Senza neanche più la forza di chiedere. Inerte e consunta dall’attesa. L’umore degli uomini, si accordava perfettamente all’ambiente. Viscido. Augusto Brandi operava senza sosta. Dalla mattina al tramonto, dietro al lenzuolo steso che divideva a metà la stanza delle medicazioni. Un poco alla volta aveva assorbito dentro di sé, come un contagio, la tragedia di quei disgraziati. Aveva cominciato a comprendere cosa fossero l’angoscia e la disperazione. E ora sentiva il bisogno di confidarsi. Era come una vibrazione interiore che lo spingeva. Durante il giorno lo assillava il dolore dei tanti infelici. Di fronte ai quali si sentiva scoperto e indifeso. Le piaghe, le ferite e tutte le sofferenze che lo attorniavano, lo interrogavano, lo supplicavano, senza tregua.

- Ma dove mi sono cacciato? – Pensava Brandi, il grande chirurgo.

- Che c’entro io con questa guerra? E con questa gente, miserabile.

Eppure se ne sentiva attratto. Si sentiva come di fronte a uno specchio capace di riflettere la sofferenza che senza rendersene conto, aveva sepolto sotto cumuli di successi, di onori. La laurea, la carriera, la cattedra…La sofferenza che tornava, dopo tanti anni alla superficie. E lo metteva prepotentemente di fronte alle proprie responsabilità, alle scelte della sua vita.

Non era un ingenuo Brandi e anche nelle lussuose cliniche dove operava abitualmente, aveva conosciuto il dolore, “degli altri”. Ma qui era diverso, intanto per quantità e poi perché sembrava senza valore, il dolore di quei disgraziati.

E di notte le immagini del giorno appena trascorso lo agitavano, lo torturavano. Bambini mutilati, giovani guerrieri squarciati, madri e padri consumati dalla fame e…mosche…insetti…sporcizia, ovunque.

- Professor Brandi – lo chiamò Suor Agnese – presto Professore, di qua, c’è un’emergenza…

- Si, certo, vengo subito – rispondeva assorto.

- Signore… ti prego! – si lasciò sfuggire a fior di labbra.

L’invocazione gli era uscita spontanea, quasi una liberazione, come la ricerca di una Redenzione, di una Salvazione dalla follia che tutto circondava.

- Mi sento oppresso…nell’anima…Forse se parlassi con qualcuno….

E rifletteva Brandi, seduto sul bordo del lettuccio sgangherato, a notte fonda. Sudava, a causa del calore intollerabile e le gocce di sudore si mescolavano alle lacrime.

In certi momenti gli sembrava di udire, nell’assordante silenzio notturno, le voci dei suoi. Di Serena, sua moglie e poi della piccola Monica e di Francesco, i figli.

Aveva sprecato tanto tempo Brandi.

- Come ho potuto…! – si diceva scuotendo la testa, sconsolato.

- Dovevo essere pazzo a non capire!

Si era gonfiato, negli anni del successo, di superbia, vanità, supponenza.

Nemmeno ai suoi di famiglia, si era concesso. Tutti dall’alto in basso.

Persino in casa aveva preteso che si osservassero delle distanze nei suoi confronti. E tutti dovevano avere il timore di disturbarlo se, caso mai, gli avessero rivolto una domanda.

Per tutti egli era “il Professore”. Sempre indaffarato e impegnato in qualcosa di importante, inafferrabile ai comuni mortali.

Come avrebbe desiderato, ora, sentire il dolce suono della voce di sua moglie, Serena…

In quel luogo sperduto nella foresta non poteva comunicare e l’unico contatto col mondo era l’elicottero militare che una volta alla settimana, se poteva, portava la posta e i rifornimenti. Quando gli avevano proposto di far parte della spedizione di medici in aiuto alle popolazioni martoriate dalla guerra, gli era sembrata una cosa avventurosa e “molto trendy”, e aveva accettato con entusiasmo. E per la prima volta in vita sua si era fatto sorprendere da una realtà che non aveva previsto. La guerra aveva le sue logiche, spesso incomprensibili. Qualcuno in “alto” aveva ordinato un arretramento del fronte per motivi strategici e l’ospedale era rimasto tagliato fuori. Lì nessuno poteva aiutarli. Dovevano cavarsela praticamente da soli. Lui e Suor Agnese, unica sopravvissuta di un gruppetto di religiose ospedaliere. E in un mese Brandi aveva imparato bene cosa potesse significare. Si mise le mani tra i capelli e si buttò sul cuscino, di lato. Odiava doversi coricare. Sapeva che subito avrebbe bagnato di sudore nauseabondo cuscino, lenzuolo e materasso e allora gli ritornava su per il naso e fino in gola il fetore degli ammalati e dei feriti accatastati uno sull’altro.

Quello poteva essere l’inferno. L’unica oasi era il volto sereno di Suor Agnese. Dolce e sorridente.

I derelitti la cercavano di continuo.

- E’ il refrigerio dell’anima, quel sorriso – si disse Brandi. - A me non succede mai.

- Ho bisogno di tornare a sorridere …

- Ho bisogno di ritrovare la pace, prima di tutto…Con me stesso.

Cominciò Brandi a maturare l’idea di aprirsi e parlare con qualcuno a cui affidare le proprie pene interiori.

- Un prete – si disse una mattina – ecco, un prete potrebbe aiutarmi.

Perché no, in fondo, …Perché no?

- Potrei provare a ricominciare. A dare il giusto valore ad ogni cosa e…

Ma poi scivolava nel pessimismo più nero.

- A che serve? Tanto da qui non ne uscirò più… –

E guardando Suor Agnese che con infinita pazienza nettava una piaga a un vecchio moribondo, rifletteva.

- Almeno lei ha il suo Dio…

- Professore, non si sente bene? Ha bisogno di qualche cosa? Le porto un po’ d’acqua?

Era Suor Agnese. Riusciva ad accorgersi persino del suo conflitto interiore, nonostante l’intero universo dolorante la reclamasse ovunque. – Non è niente Agnese…- rispose Brandi –… un attimo di stanchezza –

E la ragazza che rideva e lo guardava divertita.

- Che c’è, cosa ho detto di tanto comico? E allora? A lei non capita mai di sentirsi stanca?

- Non è questo – rispose la ragazza

- E allora cosa? Me lo dica.

- E’ buffo Professore. E’ la prima volta che mi chiama Agnese…E non Suor Agnese…Suona buffo, non le pare?

- Per me no, Agnese, non è buffo. Per me è tutto terribilmente serio.

E dopo un po’ riprese dicendo:

- Perché non lo insegna anche a me?

- Che cosa Professore? Cosa potrei insegnarle? E poi, io a lei?

- Ma…Non importa. Lasci perdere Agnese, era solo una fantasia…Piuttosto perché non se ne va da qui…Alla prima occasione?

- E lei, Professore allora? Pensa forse che potrei lasciare…?

E con un ampio gesto del braccio, indicò Suor Agnese, i tanti infelici ammassati e l’intero ospedale.

Immaginò Brandi di cogliere un messaggio. Era indispensabile che si abbassasse a chiedere. E non alla suora, troppo facile! Ma alla collega, donna, compagna. Poteva essere Agnese a offrirgli la mano per risalire la china.

E allora si fece coraggio.

- Agnese, senta, debbo parlarle…di una cosa personale. Vede da un po’ di tempo, o meglio, da quando sono qui ho come l’impressione che la mia vita abbia girato a vuoto, come un treno diretto su un binario morto. Una volta giunto in stazione…è la fine, di tutto. Mi rendo conto di aver commesso molti errori. E….

- Forse Professore – lo interruppe la ragazza – forse lei vorrebbe parlare con qualcuno più esperto di me in queste cose, forse se lei volesse , potrebbe incontrare Don Antonio, il nostro parroco. Se Dio vorrà, dovrebbe essere qui, domenica. Di sicuro, nonostante i tanti impegni che dovrà fronteggiare, sono certa che troverà un momento per parlare anche con lei, abbia fiducia, professore.

Brandi si sentì sollevato. L’idea di confidarsi lo faceva stare bene. Attese la domenica con impazienza. Si preparò all’incontro con Don Antonio riflettendo accuratamente alle cose da dire. Decise che si sarebbe confessato. Sentiva forte il desiderio di intraprendere un percorso in cui Dio fosse una presenza costante. Si sentiva pronto, ora.

Suor Agnese si premurò di avvisare il Parroco in modo che avesse cura di riservare uno spazio del suo esiguo tempo al Professore.

Don Antonio accolse l’illustre clinico con un abbraccio fraterno prima di iniziare un lungo ed intenso colloquio. Brandi ripercorse insieme al sacerdote tutto il tumultuoso cammino che l’aveva condotto alla conversione e riuscì persino a versare lacrime di pentimento. Finalmente sentiva di aver liberato l’anima da un bozzolo fatto di egoismo e superbia. La confessione lo lasciò esausto ma sereno e pronto a cominciare una nuova vita.

Don Antonio finì di sbrigare i molti impegni che si erano accumulati nel tempo trascorso dall’ultima visita. Confessò e comunicò anche Suor Agnese.

- Lei vuol sapere come è andata, non è vero? – disse alla fine indovinando la domanda nello sguardo della ragazza.

- Cara, a lei posso dirlo – continuò Don Antonio, con un sorrisetto malizioso – io…io, faccio santi anche i sassi… se voglio!

- Ma… Non avrei mai immaginato che…proprio lei, Don Antonio…- rispose Suor Agnese, con un’espressione colma di perplessità, senza terminare la frase.


Racconti d’altri tempi  

Lu Conte

di Agnolo Camerte

Ce famo un quartino e ‘na gazzosa? Era la reiterata, frequente domanda che lu Conte faceva ai suoi amici, quando entrava nell ’osteria della Bella Gina.

Non che ci stesse di stanza ogni giorno che non trovava lavoro, ma ci mancava poco.

Si arrangiava facendo di tutto: muratore, portapacchi, con un triciclo sgangherato che frenava pure poco, strillone, uomo di fatica.

Prendeva su tutto quello che gli capitava e non si tirava mai indietro; la famiglia era numerosa e lui poveretto, faceva quello che poteva. Però la bevuta all’osteria e la relativa partita a briscola, non la rinunciava: era il suo unico svago soprattutto durante quelle lunghe giornate d’inverno, quando fuori tirava la tramontana e faceva mezzo metro di neve.

A parte il freddo, per lui la neve era una fortuna perché il Comune lo aiutava, facendogliela spalare a giornata come operaio. Freddo pare che non ne sentisse perché quelle bevutine di vino lo scaldavano un bel po’.

Conte, ma che ti sei ammattito! Oggi ti sei messo pure a lavorare! Lo portavano un po’ in giro e lui ci stava allo scherzo, non si arrabbiava.

Aveva una voce tonante, sorprendentemente forte, per un uomo che era alto, ma pelle e ossa. Quella voce era un po’ la sua fortuna e il divertimento di molti.

Infatti , chi altri poteva urlare meglio di lui, alla piazza affollatissima i numeri della tombola? Per questo servizio il comitato delle feste lo chiamava e lo pagava.

   

Alla festa del Santo Patrono, esaurite tutte le funzioni religiose, fatte le processioni, la sera si estraeva la tombola! Ricchi premi solo per la prima e seconda tombola. Quando la famosa Fiat 500 costava 525 milalire, poterla vincere alla tombola era davvero un avvenimento che attirava in piazza migliaia di persone. E lu Conte si sentiva il personaggio al centro dell’attenzione: era lui che estraeva la fortuna ai vincitori, girando quella sua manona callosa dentro l’urna dei numeri. Chi vinceva era sempre generoso con lui!

Non c’erano altoparlanti adeguati allora; anzi a volte non c’erano per niente. Quindi a chi affidare l’annuncio dell’estrazione dei numeri se non a lu Conte?

Come iniziava l’estrazione, si sentiva prima di ogni numero estratto un gagliardo squillo di tromba. Perepereperepepepe! Era Paolone, il bidello delle Scuole Medie. Ne andava orgoglioso e nel fare questo servizio, si gonfiava come un rospo. Sembrava che scoppiasse, ma tra una stecca e l’altra, arrivava comunque alla fine. Seguiva il solito applauso, i soliti fischi e poi quell’omone alto e secco, dal balcone della piazza, con un gesto del braccio da vero attore di teatro, zittiva tutti, per scandire urlando il numero fatidico estratto.

Lu Conte non lo riconoscevi in quelle occasioni: sembrava un nobiluomo su nel balcone; persino la cravatta rimediava e il suo portamento si trasformava con una teatralità sorprendente: appunto sembrava un Conte..! E così lo chiamavano tutti.

Era anche un gran paravento, perché immancabilmente, ad un certo punto dell’estrazione, faceva finta che gli calava la voce, ed allora reclamava sempre un fiasco di vino per schiarirla. Miracoloso nettare ché gli faceva tornare squillante la voce dopo ogni bevuta!

Ecco il primo numero! Numerooo! (pausa……..) 25! Vai! Beccato! Secondo numero! – Numerooooo!( pausa più corta) 34! Vai! Coperto!Terzo numero estratto! (pausa lunga per un sorso dal fiasco) 77! Che bello! Anche questo beccato! Quarto numero estratto! (solita pausa da attore consumato, qualche improperia perché non te spicci!) 82! Beccato anche questo!

Potete immaginare che urlo , quattro numeri estratti e Carletto li aveva beccati tutti! Attesa da cardiopalma, la vincita della cinquecento era ad un passo.

Mancava solo il 18, gli anni di mia sorella! Non si sa dove fosse in quel momento, Carletto non la vide ed allora in un attimo sciorinò tutte le preghierine per la prima Comunione che le monache gli avevano insegnato! Ma la voce per l’emozione non gli usciva, sentiva però che le guance erano come infuocate e che per l’emozione, non sentiva più nemmeno il brusio della piazza.

   

Ma vi rendete conto? Una 500! L’ avrei regalata subito a mio Padre, che non avrebbe potuto più non sdebitarsi con una bicicletta; tanto io non la potevo guidare la macchina perché ero piccolo. Però chi sa! Poteva anche insegnarmi a portarla, magari in campagna, dove non ci vedeva nessuno!

Lo squillo della tromba cancellò i suoi sogni come svanisce l’immagine da uno specchio che si frantuma…..Numeroooo! 66! Ma no! Questo non è il mio!.........pensò Carletto: vediamo il prossimo…

Ancora buca, e ancora buca e ancora buca. Ma come, quattro numeri di fila e mò che succede?...Ne manca solo uno!...

Accadde che dopo l’estrazione di altri tre o quattro numeri si sentì l’urlo TOMBOLAAAAAA!

Addio cinquecento! Che delusione! Che festa al contrario stava già facendo il vincitore : sembrava impazzito! Beato lui! Non restò che aspettare con trepidazione il secondo premio: centomilalire, un prosciutto e una damigiana di verdicchio!

Espletati gli accertamenti d’uso, controllata la cartella del vincitore e assegnato il premio, Lu Conte iniziò a strillare i numeri estratti per la seconda tombola. Niente da fare! Il 18 non ne volle sapere di uscire. Finì che nell’estrarre tutti i numeri dall’urna per controllare che ci fossero tutti, il 18 fu il penultimo numero ad essere estratto.

Carletto arrabbiatissimo, non giocò mai più a tombola! E poi dicono che è il 17 che porta scarogna!


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)