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Arte

Quando la materia sostituisce la madre-tela

di Margherita Lamesta

Per fare arte devi entrare nella vita

Il ciclo d’incontri organizzati dall’INASA, quest’anno, ha interessato l’intero secolo scorso, con una particolare attenzione prestata all’arte del secondo dopoguerra, fino ad arrivare agli anni settanta, nello specifico dell’incontro del 7 giugno, curato dal Prof Bruno Corà e dalla Dott.ssa Laura Moccia.

In quali radici affonda la cultura odierna e quanto le declinazioni artistiche l’abbiano influenzata e dirottata verso un processo inarrestabile di mercificazione ma anche di specificazione e di convivenza tra le arti, non sempre armonica eppure sempre più sofisticata, è un quesito che resta aperto.

   

Michelangelo Pistoletto: Divisione e moltiplicazione dello specchio,1975-79

Alberto Burri: Sacco, nero e rosso, 1955

Il professore, infatti, ha posto l’accento su tre concetti fondamentali, che entrano a far parte del mondo dell’arte, a partire dagli anni 40: l’arte si spoglia completamente dell’idea di mimesi, per arrivare a presentare qualcosa – lo spazio, originariamente prospettico, non solo ha perso tutte le prerogative della prospettiva, nelle varie tappe dell’astrattismo, ma va addirittura oltre, per farsi cosmico e si acquisisce la consapevolezza di una sua dimensione mentale, da non confondersi con quella fisica, cioè ambientale - nell’arte si sviluppa il concetto di movimento, di divenire e di collegamento continuo. Siamo tutti attaccati da un fluido di particelle, che ci lega l’un l’altro. Il disagio esistenziale e le enormi difficoltà di ripresa, miste al desiderio di rinascita, che caratterizzano il secondo dopoguerra, si traducono nell’esistenzialismo di Sartre, per esempio, ma anche in un’inquietudine, che gli artisti esprimono con la cancellazione totale di qualsiasi diaframma interpretativo, nel triangolo artista-opera d’arte-spettatore e suo rapporto con la realtà.

I sacchi di juta, il catrame e le muffe, portate dentro la pittura da Burri, a partire dal 47, esprimono una modalità di fare arte – il modo specifica ogni artista - facendo di lui un innovatore assoluto. Il sacco sdrucito di Burri va oltre la lezione di Duchamp. Quel sacco è la materia bruta, è l’informale, è la crudezza, che il disagio sociale impone a tutti. Le pulsioni esplodono fuori dalla gente in modo violento, fino ad acquisire una voce importante e fino ad essere teorizzate e riprese nei vari linguaggi artistici: dalla pittura alla drammaturgia, alla letteratura.

Tutte queste metamorfosi, tuttavia, prendono le mosse da lontano; ricevono il “la” dalla lezione di Marinetti e Boccione – sostiene Corà. Lo spazialismo cosmico, portato in scena da Lucio Fontana, rispecchia e anticipa i tempi. “Vogliamo che il quadro esca dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro” – recita il Manifesto dello Spazialismo, teorizzato da Fontana, nel 47. Questo concetto di espansione cosmica non solo è di molto anticipatore sui tempi - vent’anni dopo, l’uomo metterà piede sulla Luna – ma apre una dimensione che non si è mai conclusa. Pensiamo al web: non è altro che l’ennesima declinazione di quel concetto intuito da Lucio Fontana, più di mezzo secolo fa – sottolinea il Prof Corà. Il suo Manifesto del movimento spaziale per la televisione, del 52, ne anticipa l’avvento di due anni e la spettacolarità generalizzata - elemento rappresentativo di un teatro di guerra permanente, frutto della globalizzazione capitalistica, in cui l'epica della mercificazione e della spettacolarizzazione delle passioni è assolutamente centrale e del tutto spudorata – teorizzata da La società dello spettacolo di Debord, fa riflettere su un intuito formidabile, già ravvisato e paventato più di quarant’anni fa, di cui oggi leggiamo chiaramente le dirette conseguenze.

   

Lucio Fontana: Concetto spaziale, argento, 1961

Enrico Castellani: Superfici bianca, 1998

La tela infranta e violentata di Fontana è in polemica con le estroflessioni ed introflessioni sulla tela operate da Castellani, perché il primo la deturpa irrimediabilmente laddove il secondo ha facoltà di farla tornare integra, qualora annullasse l’intervento operato precedentemente. Entrambe queste posizioni, tuttavia, rispondono direttamente al diktat dello spazialismo cosmico: se si lascia cavalletto e prospettiva, tutto ha diritto di entrare nell’arte ed il modo d’uso della tela (la madre) non può più essere codificato rigidamente, una volta per tutte.

Ecco che le scomposizioni di Accardi e Sanfilippo - con la successiva strada segnica caratterizzata dal bianco e nero e dalla tecnica alla caseina della prima - il neoplasticismo di Mondrian - con il suo equilibrio tra forme e colori - sono tutte declinazioni artistiche che prendono le mosse dal futurismo di terza generazione, per così dire, a partire da Munari, nel 29.

   

Alexander Calder: Black elephant

Gianni Colombo: Struttura pulsante, 1959

Portando avanti, dunque, la volontà di trasformare gli spettatori in tecnici, per sperimentare nuove griglie percettive, attraverso giochi di luce, movimenti virtuali e opere in movimento, grazie all’intervento dello spettatore, si tocca con mano il clima di sperimentazione che si scatena in quegli anni e che via via diviene sempre più esigente, fino a portare gli artisti anche a sacrifici estremi. È il caso di Francesco Rosario, ad esempio, fratello germani di Tano Festa, che ossessionato dalla luce, dal suo desiderio di teorizzarla, pilotarla, ingabbiarla, morirà suicida a soli trentott’anni. Artisti come Colombo e Calder, poi, chiamano fattivamente in causa lo spettatore. Il primo, giocando con il contrasto estremo che nella materia, come nel colore, è dato da due concetti in opposizione. Il muro di Gianni Colombo, infatti, diventa di polistirolo e la sua rigidità è smantellata, a favore di un’anima pulsante, proprio come un cuore, di cui ne riprende il ritmo. Calder, invece, fa ancora un passo avanti, con le sue sculture cinetiche. Questi chiede allo spettatore d’intervenire praticamente nell’opera d’arte! Ancora oggi questa lezione è in progress: con i videogiochi e le sceneggiatura aperte, in rete, si chiede allo spettatore di diventare protagonista di una storia, tanto da essere lui l’autore del suo iter.

E, sulla scia della sperimentazione, Corà ha ricordato anche Pistoletto. Pistoletto introduce il concetto che la pittura è virtuale, coniuga realtà e pittura e, con i suoi quadri specchianti, afferma che per fare arte c’è bisogno di entrare nella vita, invece di guardarla a scopo rappresentativo.

È così che la relazione del Prof Corà si conclude con un esempio degli anni settanta. Ranaldi, nel 75-76, raffigura un solo personaggio ripetuto in serie: se stesso. L’artista dirige una grande orchestra ma suona anche tutti gli strumenti della stessa, rilanciando, infine, il meta messaggio dell’artista giunto alla sua apoteosi.

Gli anni settanta, però, sono anche gli anni della contestazione e se da una parte si tirano le somme di intuizioni partite ad inizio secolo, dall’altra si scatena una polemica accesa contro il sistema, che genererà ancora nuove forme d’arte.

   

Marchel Duchamp: Il grande vetro

Nel 71, il New York Times parlerà di Taki 183, grazie all’avvento delle tag, che lui porta in arte. Taki era un teenager di Manhattan, che scriveva il suo nome e il suo numero civico ovunque andasse. Ancora un’operazione segnica sulla tela. Via la tela, largo al treno. Si sceglie il treno come superficie privilegiata delle tag, in omaggio alla massima espressione di libertà e mobilità che esso rappresenta. Graffitografi, cultura hip hop, break dance sono tutte declinazioni della street art. Mentre la pop art, che pure vigeva ai tempi, si metterà d’accordo con il sistema, i graffitografi saranno gli autori di un’arte abusiva, fatta in solitudine, che perderà tutta la sua passionalità, una volta messi gli artisti in condizione di comodità e legalità. Di estrazione sociale degradata, disperata e poverissima, questi autori erano intenzionati a riprendersi la città e vollero mandare un messaggio di liberazione , con l’auspicio di una vita migliore per tutti. La street art voleva riprendersi la strada, – conclude la Dott.ssa Laura Moccia - aprendo così un varco verso la fusion tra le arti, che ancora oggi continua il suo inarrestabile processo di contaminatio.

Se, ai tempi, però, il limite invalicabile era fortunatamente dato dal riconoscimento dell’artista da parte di altri artisti - a loro volta riconosciuti da altri – oggi, l’azzardo di permettere l’ingresso in arte anche a chi non ne abbia le capacità è ancora più pericoloso. La sottile campana di vetro, custode di un mondo complesso, quale è quello dell’arte, è stata sempre a limite di rottura ma altrettanto costantemente si è tenuto nel dovuto conto il parere dei colleghi più autorevoli e lungimiranti. Oggi, il rischio, causato da un isolamento in netta contrapposizione con i gruppi di allora ma perfettamente in linea con i nostri tempi, è quello che si possa entrare in un delirio di onnipotenza, perché manca chi riconosca nell’altro l’artista. Il più delle volte, ci si autodefinisce tali, senza un piano di prova o controprova, nato dalla relazione con gli altri, che si fa sempre più difficoltosa.


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)