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Teatro

Teatro studio – scandicci (Fi)

Finale di Partita

(u juocu sta’ finisciennu)

8a regia bekettiana per Giancarlo Cauteruccio

Va in scena al Teatro Studio di Scandicci in prima nazionale il 5 febbraio, con repliche fino al 10 febbraio, “Finale di partita” di Samuel Beckett, regia di Giancarlo Cauteruccio.

Giancarlo Cauteruccio è un frequentatore assiduo dell'opera dell'autore irlandese Samuel Beckett ed è stato definito dai critici uno dei suoi principali e più originali metteur en scene in Italia e oltre. Il poeta Roberto Mussapi scrive: “Forse nessuno in Europa ha saputo rappresentare Beckett come Cauteruccio, facendone l'emblema di un teatro cercante, una lontana e obliata pietà originaria, un sogno svanito dell'età della pietra, una crepa da cui rinascere”.

Dopo aver indagato nelle ultime stagioni pagine pirandelliane in “Uno, nessuno, centomila”, dopo aver messo in  “OA - Cinque atti teatrali sull'opera d'arte”, al centro del suo teatro, opere di artisti contemporanei quali Kounellis, Castellani, Pirri, Cecchini e Volpi, e dopo aver incrociato la tragedia euripidea con le voci di Anna Politkovskaja e Yolande Mukagasana nel recentissimo “Crash Troades S”, Giancarlo Cauteruccio torna al suo autore guida: Samuel Beckett.

E torna a “Finale di partita”, il capolavoro beckettiano, la tragedia comica, dichiarando che dirigere e recitare ora questa pièce è una “necessità”, una “esigenza vitale”.

A distanza di quindici anni dal primo allestimento, tradotto in calabrese con il titolo di “U juocu sta' finisciennu”, memorabile lavoro acclamato da critici, studiosi e pubblico in una tournée lunga quattro anni nei maggiori festival e teatri italiani, Cauteruccio indossa di nuovo i panni di Hamm, in una edizione rinnovata in italiano in cui l'affondo nelle viscere del testo si fa più maturo e scientifico.

Inchiodato alla sua poltrona a rotelle, cieco, egli governa come Lear, re, la scena.
Gli sta accanto, coprotagonista, il fratello Fulvio Cauteruccio nel ruolo del servo-figlioccio Clov, il quale non può sedersi. Entrambi incatenati nel dialogo, inframmezzato da splendidi monologhi, essi “giocano” la loro partita, riproducendo in scena un conflitto reale che li affligge nel privato, un conflitto fra fratelli ma anche tra regista e attore.

La carnalità (o “accanita fisicità” come la definì Aggeo Savioli) presente nell'edizione del '98, qui è affievolita ma resta nella recitazione un marcato accento meridionale. Calabresi di origine infatti sono, oltre ai fratelli Cauteruccio, anche Francesco Argirò e Francesca Ritrovato che danno vita ai genitori, confinati nei bidoni in proscenio: Nagg e Nell.
“Non c'è niente di più comico dell’infelicità” dice Nell, la madre, sbucando dal bidone.
Ed è forse questa la battuta più rivelatrice di “Finale di partita”, una drammaturgia che si apre a molteplici letture ed interpretazioni, senza che nessuna in realtà esaurisca la possibilità di senso dell'opera.

Tutto questo dolore, questa infelicità senza desideri, questo interminabile gioco di sopravvivenza che sottende morte, fine, rassegnazione, rabbia, ispirano a Cauteruccio una dedica all'universo carcerario, (e non è casuale che uno dei maggiori interpreti beckettiani fu l'ergastolano Rick Cluchey).

“In questa regia – dichiara Cauteruccio – penso al sovraffollamento delle carceri, ad un “dentro” ad alta tensione, all'assenza del “fuori”. Superata l'idea della condizione post-atomica, in cui molti hanno ambientato “Finale di partita”, io mi riferisco oggi ad una condizione di post-libertà, frutto di un'epoca in cui ci sentiamo tutti prigionieri dell'eccesso di controllo”.

Nel palcoscenico vuoto Cauteruccio posiziona gli elementi scenici indicati dall'autore: la sedia a rotelle, i bidoni, il muro, due “finestrelle”, la porta, dietro la quale Clov si ritira nella sua cucina.

Il testo

“Finale di partita” è un testo classico e insieme moderno per antonomasia, “the favourite of my plays” annota l'autore nel suo diario berlinese, e “alquanto difficile ed ellittico” come scrive ad Alan Schneider il 21 giugno del 1956.
Pubblicato nel 1957 in francese, col titolo di “Fin de Partie”, fu tradotto l’anno dopo da Beckett stesso in inglese: “Endgame”.

“L’opera racconta di Hamm, cieco e immobilizzato su una sedia a rotelle, e Clov, il suo servitore-figlio che non può mai sedersi e che cammina con un’andatura rigida e vacillante. In scena due bidoni della spazzatura in cui vivono e da cui emergono, con un formidabile coup de théâtre, i genitori di Hamm, Nell e Nagg. Nessun mutamento di rilievo si verifica nel corso del dramma, tranne la morte di Nell, che tuttavia è trattata come un avvenimento non più rilevante degli spostamenti di Hamm sulla scena, o dell’esaurimento delle scorte del suo calmante. Il presente propone una realtà degradata e in via di definitiva dissoluzione, che la routine dei gesti dei personaggi e i loro brandelli di dialogo non fanno che sottolineare.”
(da una lettera di Beckett al regista statunitense Alan Schneider che curò la messa in scena della prima in lingua inglese al Cherry Lane Theatre di New York nel 1958.)

Dando indicazioni all'attore Ernst Schröder che interpretava Hamm in una sua regia tedesca del 1967, così l'autore, che deve molto della sua formazione scacchistica a Marcel Duchamp suo amico e abile giocatore, descrive il personaggio principale: “Hamm è il re in questa partita a scacchi perduta fin dall'inizio. Fin dall'inizio sa di fare mosse senza senso. Non farà alcun progresso in questa scommessa. Ora, nel finale, fa delle mosse assurde che soltanto un cattivo giocatore farebbe. Un buon giocatore avrebbe già rinunciato da tempo. Egli sta tentando soltanto di rinviare l'inevitabile fine. Ogni suo gesto è una delle ultime mosse insensate che rimandano la fine. Egli è un cattivo giocatore.”


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