Arte
Spazio Danseei, Olgiate Olona (VA)
Sandro Sardella
Barconi sull'orlo della sera d'occidente.
Pittura informale. Il segno e' il suo strumento di indagine,
testimone di un'azione, traccia di un passaggio.
“Barconi sull’orlo della sera d’occidente barche d’alfabeti ci abitano barche che hanno fame di vento barconi carne & sole li vedo i rumori del morire adagio delle parole veloce il vento levò canti strazianti mi intenerisce un segno ritrovato consuma le mani”. Scorrono come versi le parole di Sandro Sardella, lunga litania senza virgole, pause, spazi….così come i suoi barconi dipinti…esposti fino al 9 marzo.
Barconi alla deriva, barconi soccorsi, barconi avvistati, barconi carichi. Barconi nella città sacra affacciata sul Gange, barconi lungo il Sepik, barconi sul Niger, barconi sulla Senna, barconi al largo di Lampedusa, “barconi sull’orlo della sera d’occidente”.
Viaggiatori, turisti, pellegrini. Profughi, emigrati, clandestini. La flotta di Ulisse dispersa dall’ira di Poseidone, la tempesta smarrisce la rotta.
Sbarchi e poi ancora il viaggio. Mito e cronaca, tempo remoto e tempo presente. Nelle carte di Sandro niente resta fermo, c’è sempre un partire, con quella disponibilità aperta che è tipica del viaggio.
Le sue carte seguono le strade da lui percorse dentro e fuori da sé, vissute e narrate tra superficie e abisso, poesia e storia. Un viaggio che si definisce nella frattura intesa come distacco, nell’uscita da sé, dal proprio luogo, dalle proprie abitudini, per andare e poi tornare a se stessi rinnovati e aperti al mondo. In ogni viaggio è il ricongiungimento a Itaca che permette di varcare i confini “senza Itaca non saresti mai partito”.
E’ il segno ritrovato che intenerisce il cuore di Sandro, capace di stupirsi e disorientarsi. Il segno è il suo strumento di indagine, testimone di un’azione, traccia di un passaggio. Intenso e denso di materia o più sfibrato e alleggerito, come nei lavori realizzati di ritorno dal viaggio a San Francisco, “città di luce/città tra due mari”. Un segno che “consuma le mani”, una rapida gestualità capace di abbozzare trame, paesaggi metropolitani, sagome di periferie, interi paesi che si muovono, abitati da silhouttes umane indefinite.
E poi fiori, esplosioni di vita, forme che sembrano danzanti, nate da quel “caos” dentro che genera stelle e riesce a dare luce intorno, in una sera dove i barconi scivolano sul Mediterraneo. E’ un attitudine alla visione, tipica dell’artista tale da farsi quasi disciplina, modus, misura. E la visione di Sandro è il più delle volte verticale, forse come dice lui perché “vivo in una valle” e questo ti modifica la percezione, il confronto con le cose. Il tempo dell’evento dell’opera è per Sandro un tempo di certo non rassicurante, ma ricco di imprevisti, nell’abbandono all’accadere delle cose, dove tutto assume direzioni possibili e contrarie, sempre molteplici.
Lavora per terra, strappa incolla alza muove, percorre con le mani e i piedi lo spazio dell’opera, lascia rassodare la cementite, stende a pennello le vernici, usa fogli di giornale e li rende più o meno visibili e stratificati, tutto tra interruzioni forti, rabbiose e liberatorie e catarsi per immagini di segni e colori, nel suo procedere per “automatismi controllati che producono figure senza lineamenti né braccia e la cui identità risulta dal corpo”.
Una figurazione che non ha collocazione descrittiva, si tratta di presenze enigmatiche che muovono la superficie del foglio, isolate o concentrate in moltitudini corali. Sandro ricompone frammenti sparsi di una costellazione ignota, rimette in gioco segni perduti nel divenire del tempo, grumi grovigli e mescolanze. In un continuo rapporto con quello che ha dentro, quello che vede intorno e certamente con la storia della pittura.
Non c’è mai compiacimento nelle opere di Sandro, non si gratifica, non indugia. Si butta a capofitto in quel “mare spunnatu”, mare senza fondo, mare nostrum, vissuto e narrato, gravato da millenari archetipi, miti e simboli, che si ripetono sull’orlo della sera d’occidente. Occidente, terra dell’occaso, terra del tramonto, “del morire adagio delle parole”. L’antico gesto si ripete, passione o follia, fino a che la luce tenue della sera lascia scorgere una nuova via, per riprendere sempre e da principio il viaggio, per transitare liberi dentro tutti i territori, sotto la spinta di un desiderio che non muta mai.
Francesca Marcellini