Pagine preziose
Una città un racconto
Anna Manna e suoi paesaggi dell’anima
di Nino Piccione
Voglio fare un’ammissione che può sembrare abusata.
Ricevuto il libro, l’ho letto tutto d’un fiato. E credetemi non per cortesia. Quando si legge tutto d’un fiato vuol dire che la materia afferra, cattura la mente e il cuore del lettore, che il linguaggio aderisce ai fatti, che i fatti vivono in una dimensione universale e sincronica.
Così, in un panorama come quello della narrativa italiana di oggi, in cui troppo spesso uno sperimentalismo velleitario più cercato che sentito si allea al calcolo commerciale nel confezionare prodotti ibridi e sofisticati, è con un senso di refrigerio che, sul piano umano non meno che su quello letterario, rende un timbro autentico, un suono vero.
Anna Manna quindi, moderno cantastorie che ha il potere di creare vicende, caratterizzare personaggi, addentrarsi nei labirinti dell’anima, scandagliare i recessi della psiche. Sì, i personaggi hanno inquietudini dolorose, enigmi nascosti e dignità da rispettare, vivono contraddizioni e lacerazioni. Sono carichi di segreti che esaltano (e avviliscono). Scrivere racconti significa attingere alle sorgenti della propria fantasia, mettere in moto gli ingranaggi elementari della propria vocazione di cantastorie e scoprirsi narratore. Nei racconti c’è la varietà della vita mentre nel romanzo il tentativo di una sintesi. Il racconto deve avere una rigorosa unità di tono, di accento, di stile, di clima. È proprio il caso dei racconti della Manna, dove verità di quello che si dice e bellezza di come si dice fanno tutt’ uno per virtù della invenzione e dello stile.
Nel libro c’è quasi un tema unificante, una sorta di refrain, di lait-motiv che intrama le varie vicende. È una tenerezza, a volte struggente, che emerge dagli episodi. Sono la contemplazione o la carezza, la pietà o la parola d’amore, l’incontro dei corpi o la fusione delle anime, la prova e il sacrificio, il successo o la sconfitta che hanno spesso, come presupposto e compimento, questo sentimento profondo di tenerezza che scatta spesso inaspettato.
Voglio soffermarmi sul primo racconto “La famelica di Napoli”. Quando leggiamo le prime pagine del racconto sentiamo come una repulsione per quella giovane donna che ingurgita dolci smoderatamente, lo stesso “orrore” come dice la scrittrice che prova il marito, anche se lei invece mantiene una bellezza miracolosamente che fa rimanere fresco il corpo.
Progressivamente Anna, comincia a descrivere la donna (è una sua caratteristica quella di svelarci pian piano i personaggi nella loro integrità): da quelle che sono le caratteristiche fisiche, esterne, entra nel suo intimo, rivelandoci una sensibilità, un senso poetico (prima non avvertiti) da farle dire “Questo profumo di mare, questo canto... m’inebriano sempre.”
Comincia quindi a modificarsi il nostro giudizio. Poi veniamo a conoscere le ragioni di quell’ abbrutirsi: il suicidio del padre rovinato da uomini violenti, forse strozzini. C’è una pagina mirabile di indagine psicologica, un penetrare nel cuore, negli abissi dell’anima di quella donna che vuole vendicarsi, ma poi fa prevalere la ragione (il marito, un figlio).
Ma la ragione - ecco una pennellata psicoanalitica – le secca il cuore. È sopraffatta dalla disperazione, per vincere la quale deve godere. E un modo per godere è trangugiare dolci.
“Deve godere - fa dire Anna al personaggio della madre - perché sennò non ce la fa a restare in vita”.
Anche quando si offre nuda e implorante al marito, dice: “Facciamo l’amore con allegria, ma senza sentimenti. I sentimenti mi uccidono, mi hanno già uccisa”. E qui subentra la grande comprensione e tenerezza del marito.
Sono pagine di grande forza descrittiva, ripeto di introspezione psicologica. L’autrice segue questa sua creatura, la riveste di carnalità, di razionalità e di poesia. Ne fa simbolo di chi patisce il dolore e soffre la devastazione dell’anima. Fino a quando la tenerezza compie il miracolo. I sentimenti vivono finalmente la loro apoteosi.
A lettura finita, ci rimane negli occhi e nel cuore la bellissima immagine di Amalia, che piange tra le braccia del marito. Un pianto liberatorio, vittorioso.
Anna rivela qualità narrative raffinate e profonde con una sorprendente trasparenza affabulatoria.
Al di là di quelle che sono le vicende, quello che viene tratteggiato è soprattutto un paesaggio d’anime, da far pensare a Cioran che diceva: ”Darei tutti i paesaggi del mondo per quello della mia anima.”