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racconto

Il Fattore

di Ruggero Scarponi

Nell’ultimo anno che vissi al paese, l’inverno fu molto rigido. Non scese la neve, da noi che siamo in pianura, non succede quasi mai, ma il vento di tramontana scavalcando le montagne dalle cime imbiancate, alle nostre spalle, giungeva gelido e tagliente come una lama. La primavera fu appena tiepida e incostante. Le gelate durarono fino a maggio inoltrato, bruciando sui rami i fiori degli alberi da frutto. Le piogge arrivarono sbagliate e torrenziali, sconvolgendo le colture e la grandine tormentò i raccolti all’inizio dell’estate. Quando c’era brutto tempo e non era possibile uscire al lavoro nei campi gli uomini si riunivano al bar sulla piazza, bevevano vino e giocavano a carte. Anch’io che ero ancora bambino trascorrevo il tempo nel bar, ascoltando i discorsi dei grandi.

Nel paese quasi tutti lavoravano nella grande tenuta del Signor Floriano e mio padre ne era il fattore. Ne aveva ereditato l’incarico da mio nonno e a Dio piacendo un giorno sarei diventato io il fattore della tenuta.

Quella mattina, mio padre, alzandosi dal letto, disse a mia madre:

- Era tanto che non faceva brutto tempo così, sembra quasi che il Padreterno ci prenda gusto a mandarci ogni specie di flagello. Quest’anno il padrone non sarà contento… quest’anno…- s’interruppe. Avanzò di qualche passo verso la finestra della camera da letto da dove si poteva godere un’ampia veduta sulla tenuta, sulle vigne a perdita d’occhio e sui terreni coltivati a frutteto.

Stette silenzioso per qualche istante immerso nella visione della colture.

Nuvole - disse ammiccando con la testa verso l’alto in direzione del cielo – nuvole nere, non portano niente di buono.

Il fatto avvenne una mattina piovosa e grigia come l’anima degli uomini che oziavano nel bar.

Mio padre era lì e anch’io che l’avevo accompagnato.

- Fattore! – urlò da fuori Maurizio, il fratello minore di Nicola l’operaio giovane che lavorava alle cantine.

- Fattore! Signor Lorenzo! Presto, presto, mio fratello è ferito, è caduto in terra, giù! Alle cantine! Venite, venite, aiuto!

Mio padre impallidì, come per un funesto presagio. Poi si alzò di scatto e corse verso le cantine. Fu il primo ad arrivare.

Nella penombra del locale saturo di odori vinosi e vapori di umidità, tra botti e tini, una macchia gravida di tragedia occupava una parte del pavimento di mattoni. Da una piccola finestrella trapelava la fioca luce invernale appena sufficiente a rivelare il pulviscolo sospeso nell’aria.

Il corpo di Nicola, il giovane cantiniere, giaceva immerso in una pozza di sangue e vino. Il colpo di fucile che l’aveva schiantato era finito su una grande botte dietro di lui. Dal foro che se n’era prodotto, era uscito un fiotto di vino.

- Non c’è più niente da fare – sentenziò cupo, mio padre.

Maurizio il fratello minore di Nicola scoppiò in un pianto che sembrava il lamento di un animale ferito, sommesso e rabbioso.

Era accorsa gente nel frattempo.

- Portatelo via – disse mio padre rivolto ad alcune donne. – non è bene che il ragazzo resti qui.

A mezza voce qualcuno disse:

- là! Sotto a Nicola, c’è rimasto lo scialle.

- State zitti voi. – ingiunse mio padre – di queste cose s’occuperanno i gendarmi.

- E il padrone?

- Il padrone era fuori, lo sapevate, no?

Giunsero molte persone del villaggio. Giunse anche Donna Margherita chiusa nel vestito nero del lutto per suo marito. Qualcuno le aveva detto che suo figlio Nicola aveva avuto un incidente durante il lavoro. Ma Donna Margherita arrivò come se già sapesse…Addolorata e fiera come un’antica quercia abituata a sopportare le tempeste.

- quello è lo scialle della padrona - disse sporgendosi per vedere l’interno del locale - Poi, rivolta a mio padre con espressione mesta e tendendo appena le mani con gesto supplichevole, chiese: fatemi vedere mio figlio.

Aveva la faccia percorsa da rughe dure e profonde come il campo d’estate quando è secco. Il suo sguardo sembrava un’acqua chiara che sgorga dalla profondità della terra.

- Quello è lo scialle della padrona – mormorò.

- Che ne sapete, voi? Saranno i gendarmi…- la rimbrottò sottovoce mio padre. Ma Donna Margherita si era fatta avanti per vedere il figlio un’ultima volta.

Allora mio padre dopo un istante di perplessità si fece di lato e infine con voce roca, ma con dolcezza disse - Più tardi Donna Margherita, più tardi parleremo. Ve lo prometto.

La donna con la sottana inzuppata di sangue era riversa sul corpo esanime del ragazzo.

- T’hanno ammazzato come un cane – sussurrò tra i denti.

- Suvvia venite, non va bene di restare qui.- le dicevano gli uomini.

- Figlio mio! Figlio mio! – gridò disperata la donna.

Mio padre le teneva le mani sulle spalle cercando di calmarla e di convincerla a rialzarsi.

Poi visto inutile il tentativo di nuovo si rivolse agli altri uomini.

- E via! In fretta, prima che arrivi il padrone!

Un anziano contadino aiutò Donna Margherita sorreggendola con un braccio alla vita, che non riusciva a stare in piedi. Pareva la corteccia vuota di un albero cui avessero reciso le radici.

- Dio lo maledice… – qualcuno disse, con voce sommessa.

- Chi? Chi maledice…Dio, chi? – Urlò mio padre fuori di se.

- Chi fa il male… – disse un altro

- E chi lo protegge… – disse un altro ancora abbassando gli occhi non riuscendo a sostenere lo sguardo infuocato di mio padre.

- Se c’è giustizia…- disse una donna

- non le bastava il marito, non le bastava essere diventata ricca…- si lasciò sfuggire un’anziana.

- Era lei a provocarlo…- mormorò un’altra, abbassando il volto per non far capire chi aveva parlato.

- Basta così andate via tutti – urlò nuovamente mio padre accompagnando le parole con un gesto minaccioso delle mani – resto io, qui, ad aspettare i gendarmi.

- Dal padrone…- dissero alcuni – da lui dovrebbero andare…

– Via, andate via, ho detto. Che il padrone non veda questo tumulto quando arriva! - ingiunse mio padre.

Donna Margherita fu ricondotta a casa quasi di peso tanto era sconvolta. Maurizio ora non piangeva più e sfuggito dalle braccia di alcune donne se ne stava in disparte a guardare inebetito verso la cantina dove sull’entrata troneggiava mio padre, scuro in volto, vestito tutto di nero e con i pantaloni chiusi negli stivali, sporchi, ora, di polvere e di sangue. Giunsero a cavallo alcuni dei campieri della tenuta.

- I gendarmi sono stati avvisati Signor fattore, saranno qui a momenti.

- Andate, ora – comandò mio padre con un tono di voce incredibilmente calmo e circospetto – e riferite al padrone…sapete dove…

- Bene gli sta – disse uno dei campieri mentre sputava a terra con disprezzo, dopo aver gettato un’occhiata di sghimbescio nella cantina.

- Non voglio sentir nulla – rispose gelido, mio padre.

- E’ quanto succede a chi si fa venire certi grilli per il capo…- disse un altro degli uomini a cavallo mentre stringeva con forza la tracolla del fucile - Un pezzente che il padrone ha curato in casa propria come un figlio… bene gli sta.

- Sa il padrone cosa doveva fare…- rispose mio padre con un’espressione assente, quasi estraniata-

- in questi casi….- cominciò a dire uno

- Andate ora – Concluse mio padre, - noi di queste cose nulla sappiamo.

- Nulla! – risposero i campieri in coro.


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)