Fotografia
Libreria Trebisonda e Binario 11 – Milano
Alfabeto delle Pianure
Enrico Bedolo: nuova stagione
della fotografia di paesaggio italiana
Alfabeto delle Pianure di Enrico Bedolo è una raccolta d’immagini, come un abbecedario della campagna lombarda ed emiliana partendo dalla bassa bergamasca, passando dal cremonese, scendendo fino al Po e oltre. C come cascina, S come silos. A ogni lettera corrisponde un edificio, una struttura elementare, un solido geometrico che rompe l'orizzontalità della pianura. Sono figure sintetiche, voci del reale, archetipi che potenzialmente implicano ogni possibile tipologia.
“La prima cosa che colpisce nelle fotografie di Enrico Bedolo è la presenza di un metodo rigoroso che comunque gli permette di proporre una visione lirica e personale. Non è così facile rinunciare a mostrarsi, a mettere davanti alla visione del paesaggio il proprio ego, una scorciatoia che purtroppo prendono tanti fotografi, giovani e no.
La pazienza necessaria a rintracciare quelle costruzioni comuni ma a volte straordinarie, trovare l’uniformità della luce, avere in mente quasi sempre la stessa immagine con quell’orizzonte alla stessa altezza che dà l’idea di navigare sempre nello stesso mare, questi fatti danno una misura precisa della gentilezza, dell’onestà del suo sguardo. Fotografare gli oggetti nel paesaggio mettendosi di fronte a loro è sempre una bella cosa, come guardare negli occhi una persona quando le parli, e queste fotografie non sono impassibili, è come se il fotografo ci dicesse continuamente, con gentilezza e decisione: “Io vedo così”.
Si capisce che il modo di lavorare di Enrico ha dietro la conoscenza di una storia, si vede l’insegnamento di Ghirri, per tanti aspetti: per quanto riguarda la forma, vediamo il piacere di una semplicità dello sguardo, la presenza nelle inquadrature di altre inquadrature, suggerite dalla forma degli edifici o dalle aperture sulle facciate, dal traguardo di manufatti che sembrano mirini fotografici (e sembra davvero che, mentre il fotografo guarda le architetture, queste guardano lui), e poi la stesura delicata dei toni su un registro molto chiaro. Le assonanze non sono, comunque, solo della forma: si capisce che Enrico si rivolge al paesaggio non come a un genere tutto sommato decorativo ma come problema continuamente aperto, luogo la cui immagine è prima di tutto pensiero critico visibilmente in azione.
Nelle sue fotografie, come in quelle di Ghirri, non si vedono persone, ma tutto quello che vi si vede racconta di un uomo pensante.
In realtà vi sono anche forti differenze: per Luigi ogni inquadratura era la scoperta di un mondo e l’invenzione di un metodo nuovi mentre Enrico si affida ad un metro costante, crede fermamente nella possibilità di misurare le cose nel paesaggio e la propria posizione nel mondo.
Questo ricorda una stagione importante della nostra fotografia, quando, intorno alla metà degli anni Settanta, il confronto con il paesaggio italiano usava procedimenti dell’Arte Concettuale e la fotografia veniva impiegata nei suoi aspetti più oggettivi, era importante la dimensione “antispettacolare” di quello che facevamo. Insomma, e anche questo non è così frequente, Bedolo ha meditato sulla grande vicenda della Nuova Fotografia di Paesaggio Italiana, accoglie quell’insegnamento ma non ne resta vittima, da quelle acquisizioni ha saputo iniziare un percorso tutto suo, scegliendo di trovare la libertà espressiva nello svolgimento di ricerche analitiche invece che affidarsi a trovate impressionanti.
A questo atteggiamento un po’ ascetico Enrico giustamente resta fedele, sembra muoversi tra Evans e i Becher, e nelle immagini troviamo, per usare il vecchio titolo di un’antologia filosofica, “anima ed esattezza”. Non manca certo la dimensione documentaria, la testimonianza di presenze architettoniche da considerare Bene Culturale di cui è pieno, anche in modo disperso, il nostro Paese.
Quello che ci interessava, che mi sembra Enrico continui a fare, era stabilire relazioni nuove tra un mondo che stava scomparendo (le architetture ma anche gli oggetti della cultura popolare, un paesaggio che capivamo essere in pericolo) e la sensibilità contemporanea, quindi il documento e la sensibilità artistica.”
Così scrive Mario Cresci:
“E’ necessario raccogliere testimonianze per conservare, come facevano Franco Pinna con De Martino per i riti popolari o Paolo Monti per l’urbanistica, ma conservare non è sufficiente se non si ha nessun rapporto con la percezione attuale che passa anche attraverso un atteggiamento poetico.
In questo modo, e anche proprio grazie al rigore del metodo, è possibile conferire attenzione e bellezza a oggetti che proprio non vediamo. Scopriamo che la forma di un fienile ha la stessa armonia della pieve medievale nella stessa Pianura, una chiusa rudimentale può avere la forza di un’ installazione di Kounellis, la piramide di balle cilindriche di fieno in mezzo alla radura somiglia a uno Ziggurat. Questo procedere implacabile, quasi statistico, serve anche a ripulire lo sguardo dall’accumulo di immagini di cose e oggetti continuamente proposti come eccezionali, in una aggressiva invadenza che sembra ridurre il mondo ad un frenetico fotomontaggio di cartoline, proclami polemici e pubblicitari, caricature forzate e frenetiche della realtà, che alla fine ce ne restituiscono un volto sempre uguale. La mossa di Enrico, invece, è proprio quella del rallentamento, dell’insistenza a voler vedere meglio: è proprio la fissità delle inquadrature, l’assenza di movimento, ad amplificare la percezione delle piccole varianti e a spingere lo guardo verso il racconto minuzioso di queste “sculture anonime”. Quello che ne viene fuori è il racconto di un paesaggio in gran parte inedito, ed è un racconto che, con la dovuta dedizione, potrebbe riguardare tutto il nostro territorio.
Bisognerebbe davvero riprendere un “corpo a corpo” con il paesaggio, tornare al lavoro, letteralmente, “sul campo” (mi raccontava, il giovane fotografo, della strada fatta a piedi, per i campi, per incontrare queste costruzioni un po’ magiche alla giusta distanza) perché la scoperta e la costruzione di memoria del paesaggio non finiranno mai di essere necessarie, ben più dell’esaltazione retorica delle location turistiche; e altrettanto necessaria è anche la capacità di rivelare le possibilità poetiche di quanto resiste al consumo della bellezza.”
E Paolo Barbaro puntualizza: “Nulla di pittoresco, nulla di nostalgico.
Quello offerto è un paesaggio agrario contemporaneo anche se metastorico, che rivela con la lentezza e l'insistenza dello sguardo aspetti invisibili forse perché fuori da ogni contesto narrativo potenzialmente promozionale: questi elementi della storia e della costituzione stessa del paesaggio di pianura ne costituiscono quasi l'inventario di una memoria rimossa.”