racconto
Parabole Interiori
di Ruggero Scarponi
Prima della partita, Roberto, provava sempre un momento di depressione. Lo sapeva e vi si abbandonava, convinto che sarebbe passato come le altre volte. La considerava una fase necessaria, quasi un passaggio obbligato prima di raggiungere la giusta concentrazione. Per questo non era sopraffatto dall’ansia nell’attesa, ma anzi, se ne preoccupava se tardava a manifestarsi. In quei momenti di buio avvertiva una sensazione di vivo sconforto. Immaginava di dover sostenere il peso di una responsabilità troppo grande. Vedeva con chiarezza le sue carenze, i molti difetti e reputava impossibile dominare una situazione così ostile. Gli sembrava di trovarsi da solo contro tutti. Persino i suoi compagni di squadra gli apparivano come avversari, che lo avrebbero giudicato con un tale accanimento da schiantarlo, se mai avesse perso il punto che si attendevano da lui. Poi però come era venuto, cessava. Il corpo reagiva e lo spirito si rasserenava. Iniziava così la preparazione alla partita, una sorta di percorso collaudato nel quale, Roberto, ripassava con cura meticolosa la strategia studiata a tavolino con l’allenatore. Subito dopo rivolgeva il pensiero al suo avversario. Cercava di ricordarlo nei minimi dettagli nonostante che il volto, chissà perché, nella memoria, fosse sempre indefinito, sfocato. Ne ricordava ad esempio i punti di forza. Se era un difensore, lo stile del palleggio, l’insidia degli effetti, la furbizia tattica. Se invece era un attaccante, cercava di ricordare la potenza della schiacciata e l’effetto nel top spin. Ma c’era una cosa che lo interessava più d’ogni altra, nel suo avversario. Il movimento. Da come si muoveva dietro al tavolo riusciva a comprendere tante cose. Il gioco di gambe rendeva evidente un comportamento esuberante, riflessivo, timoroso o ancora spregiudicato e collerico. Tutto diventava evidente, nel gioco di gambe. Pure, nell’attesa di essere chiamato in partita, Roberto, di tanto in tanto, si lasciava andare ai ricordi. Senza una logica, per semplici associazioni.
Così si trovava a fantasticare di quando da bambino si era avvicinato per la prima volta, al ping pong. Cosa poteva averlo attirato? La superficie del tavolo, levigata e verde come un prato di primavera? Chissà. Non se lo ricordava. Forse era stato durante una vacanza al mare. Nel pomeriggio alcuni ragazzi si riunivano per giocare e lui li aveva seguiti. A quel tempo arrivava a malapena al bordo del tavolo e quei ragazzi gli sembravano così grandi…E lui aveva tanta voglia di crescere, di raggiungerli. Già nell’estate seguente era alto abbastanza da poter tentare le sue prime esperienze con la racchetta. Ma la pallina correva veloce, ancora troppo per lui che doveva faticare a tenerla d’occhio. E già allora aveva compreso come nel gioco ci fosse qualcosa che lo affascinava e che lo avrebbe tenuto agganciato per tutta la vita come un amore che non si scorda più.
Roberto aveva riflettuto sovente su quella strana sensazione. Sembrava un’ansia, una sollecitudine interiore che lo spingeva a manifestare un’esigenza dell’anima. Una sensazione indefinita che investiva tutto il suo essere tanto da provocargli una specie di vertigine.
Intimamente non pensava mai alla competizione. Non era ansioso di vincere sebbene quello fosse il fine dichiarato. In lui s’agitava un’inquietudine, simile a quella di un’artista che non si rassegni al completamento di un’opera. Questo era il punto. Ma non riusciva a coglierne il senso profondo, il perché. Ma poi altre idee venivano a distrarlo e gli si affollavano nella mente in rapida successione, quasi una nevrosi. Roberto pensava a tutte queste cose quando lo chiamarono. Toccava a lui. Il sorteggio lo aveva favorito, andava alla battuta per primo. Avrebbe preferito fosse toccato al suo avversario, ma questo era un residuo della sua insicurezza, presto, dopo gli iniziali scambi, sarebbe svanito. In effetti, già ai primi rimbalzi della pallina sul tavolo, si sentiva completamente a suo agio. E durante la partita non sfuggiva al piacere di esibirsi. Era consapevole di come fosse abile su certi “colpi” e dell’effetto che producevano sul pubblico, che poi applaudiva riconoscente. Era bravo, senza mezzi termini e di sottecchi cercava di scoprire se nei gesti o nel viso del suo avversario cominciasse a trapelare il timore, come una piccola nuvola che viene a turbare un cielo sereno. Sapeva per esperienza che era questo il preludio alla vittoria. Bisognava far in modo che l’avversario avesse paura. Dopo, tutto sarebbe stato facile. A poco a poco lo avrebbe incalzato con un gioco vario per provarne la resistenza e trovarne i punti deboli. Il taglio? Forse. Non sembrava un gran palleggiatore. La battuta? Può darsi. Gli effetti bizzarri potevano frastornarlo. Il top spin? Già il top spin. Il colpo principe. Ci si era dedicato da anni, con duri allenamenti. Tanto da sognarselo la notte. Perché? La domanda ritornava, anche in forza del fatto che per inseguirne la purezza tecnica vi aveva sacrificato tante partite, perfino importanti tornei. Ma lui voleva quello. Come un innamorato ostinato. Voleva vincere? Sicuro! Ma senza il top la vittoria gli sarebbe sembrata vana, addirittura falsa. Tutte queste riflessioni non sembravano molto sensate e, infatti, un poco lo inquietavano. E su questo si era scontrato spesso con il suo allenatore. Non si capivano.
D’altronde, neanche Roberto si capiva… in fondo. Avrebbe dovuto scavare parecchio dentro di sé alla ricerca del lato oscuro, era evidente, ma cosa c’entrava il top? L’unica cosa che sapeva con certezza era che quando giocava, eseguire quel colpo, lo rendeva felice. Esattamente.
Tuttavia Roberto occupato in questi pensieri, persino nel corso della partita, ogni tanto, provava gusto a osservare l’ambiente circostante. Con sguardi rapidi e senza farsene accorgere. Cercava di cogliere l’attenzione del pubblico. Amava sentirsi gli sguardi addosso. E amava sorprendere. Un colpo, imprevisto, giudicato impossibile, questo lo entusiasmava. Un flip sotto rete, ad esempio. Lui lo definiva la “carezza dell’angelo”. La pallina sfiorata dalla racchetta così repentinamente che caricata di effetto, trovava la forza di superare appena la retina per scaricare dall’altra parte, subdola e imprevista tutta la micidiale energia. Un colpo spettacolare. Bello, senza dubbio. Ecco, questo si, gli piaceva e addirittura, si sorprendeva a pensare che sarebbe stato ancora più bello se l’avversario non si fosse fatto ingannare ma anzi, avesse ribattuto con efficacia il colpo, per dargli modo di non sciupare, troppo presto, un disegno perfetto, di aeree parabole.
La parabola. Questo amava Roberto. La bellezza della curva che trovava nel top spin la più superba realizzazione. Roberto amava la bellezza e dentro di sé sentiva l’esigenza profonda e misteriosa di manifestarla. Fosse nato pittore, l’avrebbe dipinta nei quadri, ma era nato atleta e la cercava nello sport. Era bello disegnare parabole nello spazio, con un tavolo come fosse un piano cartesiano, sul quale far descrivere alla pallina la perfetta geometria di un’azione di gioco. Non si capiva col suo allenatore. Non era possibile. Specialmente quando Roberto, un tempo, ora dimenticato, aveva collezionato tante sconfitte, caparbiamente, nella ricerca delle inesplicabili emozioni.
Bussarelli
di Agnolo Camerte
Andando in giro per i paesini dell’Italia centrale, soprattutto Marche ed Umbria, capita sovente di vedere ancora appesi ai portoni e portoncini delle case, quei bussarelli di ferro, ora sostituiti, nei casermoni moderni, dai campanelli elettrici… Anni addietro, per chiamare chi abitava in una casa, si sbatteva il bussarello di ferro contro il portone che rimbombando, si faceva sentire eccome!
Mi incuriosisce ancora osservarne le varie fogge, la mano che stringe la palla di ferro, era la più comune; e si possono ancora ammirarne di più elaborate, poi ci sono veri e propri capolavori, realizzati dai maestri fabbri delle città. Ce ne sono di artistici, lavorati con foglie di quercia (difficilissime da battere) dalle forme eleganti ; altri hanno arcigni lineamenti che sembrano voler intimidire lo scocciatore che bussa alla porta, altri infine se visti al buio della notte, sembrano esseri diabolici, attaccati sul portone, a difesa e per scacciare chissà quali esseri maligni. Belli o brutti comunque tutti servivano a bussare, a farsi aprire il portone, ad essere accolti dalle famiglie, oppure ad essere rifiutati o peggio cacciati via….. Fungevano anche ad altri scopi che noi ragazzi neanche sospettavamo.
Quando un bambino piangente per un capriccio passava davanti ad un portone che aveva quei bussarelli spaventosi, magari ti capitava di sentire la mamma che diceva al bambino “ ecco! Quando piangi sei brutto come quei bussarelli lì!” Il bimbo a vederli si zittiva spaventato!........
Carletto e Cesarino scoprirono in una serata d’estate lo scherzo che alcuni facevano con i bussarelli più grossi.
Con gli zolfanelli (i Prosperi) si potevano fare delle castagnole che, piazzate sul ferro del bussarello, tirato giù con una cordicella a distanza, scoppiavano facendo un fracasso che svegliava tutto il palazzo!........
Poveri ragazzi, non avevano la televisione, avevano solo la strada per divertirsi; quindi nei paesini, lo scherzo detto da prete e non, era un passatempo praticato non solo dai ragazzi….ma anche da chi aveva un po’ di fantasia e voglia di ridere alle spalle di qualche malcapitato amico.
Lo stagnino per esempio, si sapeva che era un burlone, un tizio che viveva la sua fatica quotidiana, con serenità ed allegria…
D’estate tutti uscivano a prender un po’ di fresco la sera sul calar del sole. Si facevano la passeggiatina serale e quando era buio, la gente si ritirava a casa. Capitava allora di sentire i colpi dei bussarelli che si susseguivano lungo la via; l’uno poi l’altro, vicini e lontani, con una sequela caratteristica e rumorosa.
Non tutti però rientravano presto a casa; alcuni si attardavano sino a notte fonda all’osteria de “Lu Marru” a giocare a scopone o a tre sette……e a bere, lasciando le mogli sole a casa ad annoiarsi…
Franceschina pare si fosse proprio stufata di starsene sola a casa ad aspettare quel buonannulla di marito che la trascurava, lasciandola sempre sola. Finita la cena il marito se ne usciva, e lei spicciata la cucina, se ne andava un po’ nell’orto dietro casa…Un po’ d’acqua qui e là, dai da mangiare alle gallinelle, raccogli due uova e… incominciava ad imbrunire. Lei era sola, non aveva amiche perché venivano da un altro paese...
Aspettava, e si annoiava, aspettava….Finchè una sera quel bel bussarello a forma di mano stringente una palla di ferro, diede due colpetti…Il portone al buio non le consentì di vedere chi fosse. Dovette scendere e così conobbe la prima persona di quel paese. Era un bel giovanotto aitante……
Bussa oggi e ribussa domani…….in gran segreto i due incominciarono ad incontrarsi….
Ma la tresca amorosa poteva sfuggire al marito, ma non a noi due, diavoletti di paese….
Carletto se ne accorse per primo, mentre Cesarino incominciò a pensare subito a come fare uno scherzo ai due amanti…..
Ideona! Disse Carletto, chiamiamo Peppe lo stagnino, abita qui vicino, con lui forse combiniamo qualcosa; qualcosa di molto caldo commentò Cesarino. Lui ha la lampada da stagnino e con quella mi è venuto in mente che si può fare uno scherzo “caloroso”.
Figuriamoci se Peppe lo stagnino si lasciava scappare l’opportunità di fare uno scherzo “riparatore”.
Detto fatto la sera seguente come si vide la sagoma del baldo amante scendere per la discesa, Peppino scaldò con la lampada il bussarello di quella casa sino a renderlo incandescente!
Poi via! a nascondersi nei pressi per godersi lo spettacolo di quella lezione infuocata, talmente infuocata da spegnere ogni velleità di ulteriori future avventure amorose.
Toccato il bussarello infuocato si sentì la mano friggere… l’urlo di dolore suggellò la fine di quella tresca alle spalle di quel povero marito che tra l’altro pare perdesse sempre a tresette!
Poi dicono che i bussarelli dei portoni non servono! È proprio vero, non passano mai di moda! Possono essere sempre usati……caldi o freddi che siano.