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Festival della Mente

Sarzana

Dossier a cura di Elena Marchini




Che forte la mente!

intervista ad Antonella Commellato

Antonella Commellato
Insegna Mindfulness Based Stress Reduction, si è formata presso il Center for Mindfulness, fondato da Jon Kabat-Zinn, dell’Università del Massachusetts. È docente guida nel Mindfulness Professional Training.

Insegna anche Insight Dialogue, pratica di meditazione interpersonale sviluppata da Gregory Kramer.

Ha studiato letteratura lavorando nel campo dell’arte contemporanea e occupandosi di mostre, libri e cataloghi.

Un assaggio di mindfulness, in forma di gioco, per creare uno spazio dove coltivare calma e fiducia sin da piccoli. Un incontro per bambini aperti e curiosi, un’esperienza di gruppo in cui si lavora sui sei sensi, la mente e il cuore. Provare la meditazione giocando, per vivere un’esperienza di cui fare tesoro.

Come spiegherebbe il concetto di mindfulness?

Mindfulness è un termine ombrello, che copre una vastità di concetti. In Italia è stato scelto di non tradurre questa parola, però consapevolezza aiutare a spiegare il significato di mindfulness. Secondo Jon Kabat-Zinn fondatore di questo approccio, mindfulness è “un modo particolare di prestare attenzione, basato su tre caratteristiche: con intenzione, nel momento presente, senza giudicare”.

In genere perché ci si avvicina a questa pratica?

Mindfulness non serve per guarire specificamente qualcosa. Chi pratica  mindfulness impara a stare con le cose, così come sono, senza cambiarle, ciò che invece cambia è la relazione tra l’individuo e le cose. Mindfulness è una  pratica che consente di entrare in contatto intimo e diretto con l’esperienza, al contempo si impara a guardare i pensieri da una certa distanza.

Può raccontarci come è articolata la pratica di mindfulness?

Il protocollo originario messo a punto dal biologo molecolare e professore di medicina Jon Kabat-Zinn dal 1979 nell’università del Massachussets, prevedeva 8 sessioni di gruppo, una a settimana, di circa 2 ore mezza, e una giornata intensiva. Inoltre ai partecipanti veniva chiesto di fare, quotidianamente, per due mesi, a casa propria esercizi di attenzione e consapevolezza, esercizi di compilazione di diario ed esercizi di lettura. In questi due mesi avviene una trasformazione nel modo di rapportarsi alle cose.

Mindfulness può essere una pratica adatta anche ai più giovani?

Mindfulness può aiutare i bambini a non perdere la curiosità, a gestire le difficoltà con gentilezza, a calmarsi durante emozioni potenti come la rabbia o la paura, a concentrarsi, a vedere quello che succede intorno a loro con più chiarezza, a sviluppare comprensione nei confronti degli altri. In sostanza la consapevolezza, intesa in questo senso, può dare ai bambini un accesso a uno stato di  maggior equilibrio.


La decima Musa:

la Scrittura e i suoi miti

intervista a Duccio Demetrio

Duccio Demetrio è professore ordinario di Filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Ha dedicato la sua ricerca allo studio della condizione adulta e alla sua formazione. Ha fondato l’Accademia del silenzio, la rivista Adultità e, con Saverio Tutino, la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, punto di riferimento per coloro che desiderano scrivere la loro storia di vita e apprenderne le implicazioni filosofiche, educative, terapeutiche.

Tra i suoi libri:
Filosofia del camminare (2005)
La vita schiva (2007)
L’interiorità maschile (2010) per Raffaello Cortina
Ascetismo metropolitano (Ponte alle Grazie, 2009)
La religiosità degli increduli (EMP, 2011)

Tra quelli dedicati alla scrittura:
Raccontarsi (1996)
Autoanalisi per non pazienti (2003)
La scrittura clinica (2008)
Perché amiamo scrivere (2011) per Raffaello Cortina
I sensi del silenzio (Mimesis, 2012).

Le Muse greche, è risaputo, erano nove sorelle (Calliope, Euterpe, Polimnia…) dedite alle arti (poesia, flauto, pantomima...). Tra loro però ne mancava una, la Scrittura, presente invece in altre mitologie. È possibile rimediare a questa curiosa amnesia proprio oggi? Autobiografie, diari, memoriali, epistolari, social network sembrerebbero segnalarci l’emergere di una comunità dispersa sempre più ampia di “narratori per diletto” e di grafomani. Chi sono? Chi siamo, noi che amiamo scrivere nelle circostanze più diverse della vita? E anche noi, con Italo Calvino, ci chiederemo: ”Che cosa vuol dirmi questo mito”? Riscopriremo quali siano i miti che più guidano e proteggono il desiderio, spesso istintivo, di scrivere di noi stessi. Daremo finalmente un nome alla enigmatica decima Musa, troppo a lungo dimenticata, in attesa di riscatto dopo tanto silenzio.

A proposito di Calvino, nelle Lezioni americane quando scriveva sul concetto di leggerezza, riconduceva la scrittura a tre aggettivi “agile scattante e tagliente”…

L’agilità, lo scatto e l’incisività, se dobbiamo intendere così la parola tagliente, sono riconducibili ad una scrittura giornalistica vivace, intelligente, in grado di mettere subito il lettore nella condizione di comprendere ciò che l’autore intende comunicare. In questo caso, il lettore è attratto dall’agilità del pensiero e dalla divulgazione immediata e chiara dei concetti.

Quali sono invece le scritture che privilegiano la lentezza?

Le scritture diaristiche, i memoriali, o le narrazioni di viaggi, esigono prendersi tempo. Sono, infatti, pagine scritte nel segno della ponderatezza. Il tempo in questa dimensione è completamente diverso rispetto a quanto si diceva del giornalismo, perché nel racconto l’autore ha la possibilità di interrompersi, di riprendere fiato, e di riflettere per giorni con maggiore ponderazione. Ciò che si comunica è proprio il piacere di una penna che si muove all’insegna della pacatezza.

Le immagini, sempre più presenti nella vita di tutti i giorni, hanno condizionato la scrittura?

In realtà la scrittura è nata per riprodurre immagini e concetti; la scrittura attraverso simboli grafici ha dato forma al nostro riflettere. Credo che oggi le immagini minaccino sempre più la scrittura; la loro presenza si è fatta così preponderante e invadente attraverso i media. L’unica soluzione a questa sopraffazione è di riappropriarsi della parola scritta come arte della mente e dell’intelligenza.

Secondo lei, i nuovi mezzi di comunicazione hanno tolto importanza alle parole?

Credo, che la rete, e le sue varie manifestazioni, abbiano dato un contributo fondamentale nella diffusione della scrittura. Forse si scrive con minore correttezza grammaticale e sintattica, si scrive spesso con una velocità eccessiva, ma in ogni caso si scrive di più. I nuovi mezzi di comunicazione credo che siano, in particolare per il nostro paese, in cui si lamenta ancora presenze di analfabetismo e grandi quantità di non lettori, uno stimolo straordinario per avvicinare le persone alla lettura e alla scrittura.


L’artista come parassita sacrale

intervista ai Masbedo

I MASBEDO sono Nicolò Massazza (1973, Milano) e Iacopo Bedogni (1970, Sarzana), videoartisti attivi nel campo della performance.

Da oltre dieci anni espongono le loro opere in molti musei e gallerie internazionali tra cui: il MAXXI di Roma, il Centro de Cultura Contemporanea di Barcellona, il Centre for Contemporary Art Ujazdowski Castle di Varsavia, il GAM di Torino, il Tel Aviv Museum of Art.

Nel 2010 hanno vinto il Premio Cairo e hanno presentato il cortometraggio Distante un padre al Forum Mondiale delle Nazioni Unite presso il Museo d’Arte Contemporanea di Rio de Janeiro.

Sono stati selezionati per il Padiglione Italia alla 53° Biennale di Venezia. Hanno partecipato a vari film festival e nel 2006 sono stati selezionati dal Festival del film di Locarno quali unici videoartisti per la Piazza Grande.

Dal 2002 collaborano con lo scrittore francese Michel Houellebecq. Le loro opere sono state acquisite dalle più importanti collezioni private e pubbliche europee.

Che cosa significa essere un artista oggi? Come funziona il sistema d’arte e come si rapporta con l’artista? L’incontro con i Masbedo, attraverso il racconto anche per immagini del loro lavoro e percorso, analizza il difficile ruolo dell’artista. «Molti cliché assimilano l’artista a un essere estraneo al principio di realtà. Per parassita sacrale, invece, s’intende quell’essere attivo e creativo che abita un sistema complesso, dove il quotidiano spesso si oppone allo scorrere naturale delle cose divenendo limite che stinge fantasia e passione. Artista, parassita per condizione, poiché necessita di succhiare dalla realtà per sopravvivere. Artista, sacrale per missione, poiché sublima la vita in poesia, nel tentativo di trasformarla in arma di resistenza alla realtà.» Una testimonianza sui linguaggi, le produzioni di videoarte, il mercato e il sistema dell’arte.

Come definireste la professione di videoartista? Come è strutturato il vostro lavoro?

La nostra professione è sicuramente unica. Tutto il nostro lavoro passa attraverso l’utilizzo della costruzione dell’immagine video. Cerchiamo di rendere il nostro lavoro il più trasversale possibile, contaminando gli esperimenti visivi che realizziamo all’interno del video, e proponendoli non solo nei musei, nelle gallerie, nelle fiere di settore, ma anche in situazioni particolari come può essere il teatro danza. Lavorando in coppia abbiamo la possibilità di confrontarci rispetto ai progetti in modo filosofico-concettuale; di conseguenza il nostro lavoro è una produzione artistico-relazionale.

Cos’è la video arte?

Il rapporto che esiste tra video, arte, musica e cortometraggio è assolutamente anarchico. La bellezza della video arte è che non si può collocarla in un’etichetta. La video arte non è cinema, non è documentario, non è pubblicità. La video arte usa e meticcia tutti i linguaggi possibili come la fotografia, la scrittura, la musica, la parte performativa. La video arte è in sostanza un contenitore anarchico che raccoglie tante discipline artistiche.

Come funziona il mercato della video arte?

Esattamente come il mercato dell’arte contemporanea, l’unica differenza è che il video artista si confronta con un numero minore di collezionisti, ma di grande importanza. Le grandi collezioni non trovano nessuna differenza nel comprare un quadro, una scultura, un’installazione o un’edizione limitata di opera di video arte. La nostra fortuna è quella quindi di porteci relazionare con le grandi collezioni.

Come viene recepita la video arte dal pubblico?

Non sono molti anni che la video arte è stata inglobata nell’arte contemporanea. Oggi, viviamo nel periodo dell’immagine in movimento, il video è il linguaggio della contemporaneità, e il pubblico mostra grande attenzione e curiosità verso questa disciplina.


Fra bio e Dio

Il cibo tra conoscenza,
resistenza e penitenza

intervista a Marino Niola

Senza grassi, senza zucchero, senza calorie, senza uova, senza latte, senza ogm. Oggi al cibo chiediamo soprattutto di essere senza qualcosa. E al di là delle buone intenzioni, siamo ossessionati da un’ideale di purezza e di leggerezza. Questa attenzione a quel che mangiamo fa del nostro modo di nutrirci la spia di un’insicurezza generalizzata che proiettiamo sul cibo. Facendo del controllo sugli alimenti il succedaneo rassicurante del controllo su una realtà che ci sfugge. Il risultato è un misto di etica e dietetica, salute e salvezza, normalizzazione del corpo e governo dell’anima. Un percorso sulle forme e funzioni del cibo nella società dell’insicurezza: dalla cibomania all’ortoressia, dal culto della magrezza alla crescita esponenziale dell’obesità, il cibo come un operatore simbolico che elabora i dati contraddittori del presente e costruisce ganci cognitivi e rituali cui appendere le nostre paure.

Marino Niola
A ntropologo della contemporaneità, insegna Antropologia dei simboli all’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli dove dirige il Laboratorio di ricerca sociale sulla dieta mediterranea.

Le sue ricerche includono il rapporto fra tradizione e mutamento culturale nelle società contemporanee e la persistenza del mito nelle forme contaminate del mondo d’oggi.

Fa parte del direttivo dell’AISEA (Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche). È editorialista de la Repubblica e su il venerdì di Repubblica cura la rubrica Miti d’oggi. Collabora con Le nouvel Observateur, il caffè di Locarno, Il Mattino di Napoli.

Tra le sue opere principali:
Totem e ragù. Divagazioni napoletane (Pironti, 2003)
DonGiovanni o della seduzione (L’Ancora del Mediterraneo, 2005)
I Santi patroni (2007)
Si fa presto a dire cotto. Un antropologo in cucina (2009)
Non tutto fa brodo (2012) per il Mulino
Miti d’oggi (settembre 2012, Bompiani).

Come è nato il suo interesse nei confronti del cibo?

L’interesse nei confronti del cibo è nato dai mie primi studi sull’Oceania e sull’importanza che il cibo aveva nella costruzione dei meccanismi di potere in società dove non esistevano modi di conservazione degli alimenti come ad esempio il frigorifero. In queste società il capo è colui che ha a disposizione grandi quantità di cibo e può offrire da mangiare agli altri. Mi sembrò interessante studiare l’importanza della dimensione alimentare nella costruzione delle identità politiche di società così lontane da noi, perché quasi sicuramente, anche da noi, in passato, il cibo ha avuto la stessa importanza nella costruzione della storia sociale.

Quale ruolo ha il cibo e l’alimentazione tra gli italiani?

Il ruolo del cibo nella nostra cultura è importante perché gli italiani amano molto il buon cibo, non a caso l’Italia è una delle grandi gastronomie di riferimento del pianeta. Gli italiani amano a tal punto il cibo che è anche oggetto d’investimento, di piacere. Il cibo non è semplice nutrizione, tant’è vero che spesso gli italiani mentre mangiano, parlano di cibo. Negli ultimi trent’anni l’approccio all’alimentazione è cambiato moltissimo, siamo passati dall’epoca dei “cibi con”, all’epoca dei “cibi senza”. Oggi chiediamo al cibo di essere senza grassi, senza calorie, senza glutine, senza sale. All’opposto, i nostri genitori mangiavano cibi addizionati con vitamine, con panna, con farine glutinate, perché la loro generazione aveva ancora vivo nei ricordi lo spettro della carestia. Oggi si celebra attraverso il cibo un’estasi del vuoto, un’alimentazione ascetica, che arriva sino ai limiti dell’ortoressia.

Secondo lei, nel nostro paese, cibo, alimentazione e diete sono diventate una vera e propria ossessione?

Sì, lo stanno diventando, infatti, si parla quasi esclusivamente di cibo e di diete. Tutti propongono una loro dieta. Ogni anno compaiono diete che vengono spacciate come la panacea contro tutti i mali. C’è un’ansia di leggerezza che prende un po’ tutti e porta a comportamenti alimentari assolutamente dissennati. Bisognerebbe chiedersi cosa si nasconde dietro a tutto questo e da cosa dipende quest’ansia nei confronti del cibo.

Quali sono le più comuni manie legate al cibo e all’alimentazione?

In questo momento i grassi sono una vera e propria mania. Altra ossessione è il controllo della qualità di quello che si mangia; e poi si stanno sempre più sviluppando regimi alimentari, come può essere la dieta vegana, che sono vere proprie forme di religione che si manifestano attraverso il cibo.


Parlo dunque sono

Il linguaggio attraverso i secoli

intervista a Andrea Moro

Spiegare la storia del linguaggio è come osservare il cielo stellato: congiungiamo tra loro le stelle che più risaltano, costruendo costellazioni, alcune ovvie, altre più ardite. E non tutte le stelle che vediamo sono attive: la luce che ci arriva è una luce antica, che potrebbe essere ancora in viaggio quando la stella è già morta. Il cielo è dunque contemporaneamente simile a un museo di storia naturale e a uno zoo: accanto ad animali vivi vediamo l’impronta di quelli che non ci sono più. Allo stesso modo accade quando osserviamo quali sono stati i modi di considerare il linguaggio attraverso i secoli: ogni epoca e ogni cultura hanno espresso una teoria dominante sulla natura del linguaggio a tal punto che seguendone lo sviluppo possiamo avere un campione dello “spirito del tempo”, come una specie di questione omerica della storia dell’uomo. 

Andrea Moro è professore ordinario di Linguistica Generale alla Scuola Superiore Universitaria di Pavia (IUSS) e direttore del centro di ricerca Ne.T.S. Studia la teoria della Sintassi delle lingue umane e i fondamenti neurobiologici del linguaggio.

Diplomato in Sintassi Comparata all’Università di Ginevra, è stato visiting scientist al MIT e alla Harvard University e ha tenuto seminari alla University College London, l’Università di Cambridge, il Max Planck Institute di Lipsia, la Scuola Normale Superiore di Pisa e il Collège de France. Oltre che di numerosi articoli pubblicati su riviste internazionali come Nature Neuroscience, Linguistic Inquiry, è autore di diversi libri, tra i quali The Raising of Predicates (Cambridge University Press, 1997); Dynamic Antisymmetry (MIT Press, 2000); I confini di Babele (Longanesi, 2006); Breve storia del verbo essere (Adelphi, 2010) e Parlo dunque sono (Adelphi, 2012).

Il linguaggio può essere lo specchio di una società?

Questo è uno dei modi, in cui nella storia della linguistica, si è studiato il linguaggio. Credo che dal punto di vista della struttura del linguaggio l’affermazione sia scorretto, è invece molto corretta se ci riferiamo allo stile. Faccio un esempio che uso spesso come battuta ai miei studenti, nella società contemporanea si dice che il linguaggio degli sms corrompa l’italiano, però se le abbreviazioni avessero corrotto un popolo l’impero romano sarebbe durato solo dieci minuti, è sufficiente infatti leggere un’epigrafe latina per vedere come l’abbreviazione fosse funzionale alla comunicazione. Tornando al nocciolo della questione, secondo me, in un certo senso, non la struttura, ma lo stile rappresenta la società. Nella società contemporanea, certamente il pensiero è frammentario, agitato, sintetico, e per certi versi può essere un vantaggio, ad esempio conferisce rapidità alla comunicazione, di contro però sfavorisce la concentrazione.

Come definirebbe la nostra società?

Rapida, disconnessa, nevrotica, frammentaria. La nostra, a mio avviso, passerà alla storia come epoca consumista, perché l’ossatura della comunicazione contemporanea è quasi prevalentemente modulato sulla pubblicità. Personalmente credo che non siamo più cittadini ma consumatori, si è sostituita l’idea dei cives, di tradizione bimillenaria, con l’idea dei consumers: noi siamo perché consumiamo.

Come lavora il linguista?

Il linguista fa un lavoro simile a quello di un botanico o di un entomologo, in quanto si occupa di descrizione delle lingue, ma è anche simile al lavoro di un fisico, perché cerca di capire come tanti fenomeni apparentemente diversi discendano da pochi principi; e negli ultimi 20 anni questi pochi principi si stanno iniziando a vedere in azione nel cervello.

Che relazione esiste tra linguaggio e neuroscienze?

Quanto più capiamo come funziona una grammatica complessa, quanto più rimaniamo stupiti di come un bambino l’apprenda, tanto più ci rendiamo conto che deve esistere una base biologicamente determinata per l’apprendimento del linguaggio. L’apprendimento del linguaggio è quindi prevalentemente guidato da fattori genetici, a cui si associano però anche fattori culturali, sociali e ambientali.


Per un giardino moderno
Nella sostanza e nella forma

intervista a Paolo Pejrone

Il giardino come primo passo per un approccio individuale verso la Natura, dalle barocche e sofisticate forme dei secoli passati alle forme molto più semplici dei nostri giorni, attraverso le esperienze dell’orto e del frutteto, perché il giardino si adatta alle epoche ai gusti, ai cambiamenti... E soprattutto per un giardino sano, senza veleni e concimi chimici, dove insetticidi e anticrittogamici siano banditi ed evitati. Dove il bello possa regnare e il buon senso possa vivere incontrastato. «Un duro lavoro, costruito sul bello, fatto di esperienze, di tentativi e di prove, che trova nella pazienza le sicurezze di una riuscita effimera e stagionale, negli scritti le certezze di una memoria». L'incontro con uno dei più importanti e conosciuti architetti paesaggisti italiani e non solo.

Paolo Pejrone
Architetto torinese, allievo di Russell Page e di Roberto Burle Marx, progetta paesaggi in Italia, Francia, Svizzera, Arabia Saudita, Grecia, Inghilterra, Germania, Spagna, Belgio e Austria dal 1970; è socio fondatore dell’Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio (A.I.A.P.P.); vice presidente per l’Italia della International Dendrology Society (I.D.S.); ideatore e fondatore della Mostra-Mercato Tre giorni per il giardino al Castello di Masino, fondatore e presidente dell’Accademia Piemontese Del Giardino. Collabora con La Stampa, Ville Giardini, Rai e LA7.

Ha pubblicato: In giardino non si è mai soli. Diario di un giardiniere curioso (2002), Il vero giardiniere non si arrende. Cronache di ordinaria pazienza (2003) per Feltrinelli; La pazienza del giardiniere (Einaudi, 2009); I miei giardini (2008), Gli orti felici (2008), Cronache da un giardino (2010) per Mondadori Electa.

Com’è il suo giardino ideale?

Di estrema semplicità. E soprattutto deve essere un giardino non troppo dipendente dall’uomo e dall’acqua; l’esatto contrario dell’orto che ha invece bisogno della quotidianità.

Cosa non le piace in un giardino?

La troppa artificialità, quello che i francesi chiamano pomponage. A me piace incoraggiare la natura e poi lasciarla andare, la natura deve essere libera di fare i suoi scherzi.

Il giardinaggio è una scienza esatta?

Il giardinaggio è una serie di tentativi, e l’esperienza aiuta a far sì che i tentativi vadano a buon fine.

Giardino e orto sono destinati a rimanere due spazi separati?

Assolutamente no. L’orto può essere giardino e il giardino può essere anche orto. I due spazi possono convivere come è sempre stato in passato. Nel mio caso l’orto è diventato la parte più importante del giardino.

Qual è la dote più importanti per chi fa giardinaggio?

La curiosità per me è stata fondamentale anche dal punto di vista professionale, mi ha portato a conoscere. Quando ho iniziato a occuparmi di giardini e giardinaggio non c’erano molti insegnanti, era quasi un’arte misteriosa; oggi invece se ne parla di più, è più facile.


AvventurosaMente sotto i mari

intervista a Folco Quilici

Scendere sotto la superficie del mare, anche se di poco, vuol dire essere pronti a incontri e sorprese. Paura? Le creature del mare non rappresentano un pericolo, se le si conosce e ci si comporta da amici. Un percorso avventuroso e misterioso, anche con immagini straordinarie, tra i mari del mondo, guidati da Folco Quilici.

Folco Quilici, viaggiatore, scrittore e regista, è il più noto narratore italiano di mondi e genti lontani, con libri e film più volte premiati, come Sesto Continente e Fratello mare. Ha trascorso gran parte della sua vita cercando di raccontare il mare e far conoscere chi lo abita.

Tra i suoi libri per ragazzi, ricordiamo:
Storie del mare (2011)
Amico oceano (2012)
Relitti (settembre 2012)
per Mondadori.

Che cosa è stato per lei il mare?

Il mare è stato un incubo; quando ero piccolo, sino ai 10-11 anni, mi portavano in quelle spiagge tragicamente assolate della Romagna: il caldo, la sabbia, i riti del bagno “non si poteva fare il bagno prima delle 11,30”, mi facevano rimpiangere la montagna. Al tempo di guerra, invece, con la famiglia ci rifugiammo in una casa in montagna dove mio padre aveva portato moltissimi libri sul mare, e leggendo quei libri subii il fascino del mare; ebbi un amore molto intellettuale nei confronti del mare. A questo aspetto letterario se ne unì un secondo, più pratico. Finita la guerra andai a Levanto da uno zio, dove scoprii un mare trasparente e le immersioni. Nacque così questa nuova passione. Nel tempo ho scoperto che andare sott’acqua è molto simile all’andare in montagna, il fondale del mare è molto simile a una montagna rovesciata, quindi mi sono ritrovato molto montanaro in acqua. Forse sarebbe finito tutto con quell’esperienza ligure, se non avessi deciso, sin dalle scuole medie, di voler fare il giornalista. Mi resi conto che nessuno scriveva di mare. Tra il ‘49 e il ‘50 ho iniziato a scrivere di mare, grazie anche a un amico con il quale avevamo realizzato una prima attrezzatura da ripresa per le immersioni. In seguito, con un gruppo di ex compagni di scuola passammo tre mesi in Sardegna, quando ancora era una regione sconosciuta, e da lì è nata l’idea di fare il mio primo film “Sesto continente” che risale al ‘52. Il mio amore per il mare non è stato un coup de foudre.

Quanto sono attendibili i dati che vengono divulgati annualmente all’inizio di ogni stagione balneare?

I bollettini di salute del mare sono abbastanza ridicoli. Non mi è mai capitato infatti di riscontrare, neanche in Polinesia che ha acque limpidissime, le condizioni del mare uguali per più giorni. Non esistono mari completamente inquinati, come non esistono mari completamente puliti. Parlando in generale, la situazione dell’inquinamento marino è a macchia di leopardo, nel senso che i mari sono inquinati da macchie che sono spostate dalle correnti. La distribuzione dell’inquinamento dei mari dipende perciò dalle correnti che sono in costante movimento; nel nord della Sardegna dove le correnti sono molto forti, l’inquinamento o la torbidità delle acque ha una durata molto breve, al contrario di quanto avviene invece nelle acque stagnanti, come ad esempio quelle dell’Adriatico.

Qual è stato il mare più bello che ha visto?

La limpidezza, quindi la bellezza del mare dipende da diversi fattori, ci sono giorni che persino il mare di fronte a Ostia è bellissimo. Per il mio lavoro preferisco i mari tropicali per la ricchezza che offrono, però mi affascinano anche, da amico della montagna, i nostri mari, la Sardegna, le isole Eolie, le Egadi.

Come si può insegnare alle giovani generazioni il rispetto per il mare?

Sono loro che stanno educando noi. I ragazzini hanno percepito molto più degli adulti il senso del dovere di tenere il mare pulito.


D'amore e di ragione
Donne e spiritualità

intervista a Laura Bosio

La spiritualità, e forse in particolare quella delle donne, non è sentimentalismo; al contrario, è desiderio di superare, fino a estinguerle, le vicissitudini delle sensazioni e dei sentimenti. Nelle pagine di filosofe, poetesse, mistiche e scrittrici, dall'antichità ad oggi, Laura Bosio rintraccia le tante espressioni della spiritualità femminile.

Laura Bosio, nata a Vercelli, si è laureata in Lettere moderne all¹Università Cattolica di Milano, dove vive e lavora da anni come consulente editoriale. Ha insegnato Materie Letterarie e Storia e Filosofia in scuole superiori di Vercelli. Ha realizzato trasmissioni radiofoniche, collaborato con periodici nazionali e pubblicato articoli, saggi e racconti su riviste letterarie (da Paragone a Letture).

È autrice dei romanzi I dimenticati (Feltrinelli 1993, Premio Bagutta Opera Prima), Annunciazione (Mondadori 1997, Premio Moravia) e Le ali ai piedi (Mondadori 2002) e delle raccolte La preghiera di Ognuno (Leonardo-Oscar 1998) e La ricerca dell¹impossibile. Voci della spiritualità femminile (Leonardo-Oscar 1999). Nel 1997 ha lavorato al soggetto e alla sceneggiatura del film Le acrobate di Silvio Soldini.

Perché un libro sulla spiritualità femminile?

D’amore e di ragione. Donne e spiritualità prosegue una ricerca sulla spiritualità che era iniziata qualche anno fa, quando Ferruccio Parazzoli per Mondadori mi aveva chiesto di raccogliere dei testi sulla spiritualità femminile, testi di ogni tempo, di ogni paese, di religiose e laiche e di tutte le religioni. Ho scelto di approfondire la spiritualità femminile perché le donne sono state così a lungo silenziose e mi sembrava importante dare voce in particolare alle donne. Inoltre, nell’introduzione del libro ho focalizzato l’attenzione su due parole che sono ricorrenti nella spiritualità, dentro e oltre, e che mi sembrano due parole proprie delle donne.

Che rapporto esiste tra spiritualità e credo religioso? Si può essere spirituali senza essere credenti?

Certamente, si può essere spirituali senza essere credenti. Il credo religioso e le fedi hanno a che fare con la spiritualità ma anche con altri aspetti. Spiritualità è una parola vasta che la filosofia, l’arte e le religioni hanno variamente declinato; io ho inteso la spiritualità come uno spazio, un respiro interiore, un guardare dentro di sé per uscire da sé.

Come definirebbe la spiritualità?

Penso sia una capacità di mettersi in ascolto di sé e degli altri. Le ricerche delle neuroscienze sui neuroni specchio confermerebbero un’attitudine, una nostra capacità, di entrare dentro il cervello degli altri; i neuroni specchio si attivano sia in presenza di azioni finalizzate a uno scopo, ma si attivano anche quando osserviamo le stesse azioni fatte da altri. Questo lascerebbe pensare che noi siamo in grado di vivere sensazioni ed emozioni che accadono negli altri come se accadesse a noi.

La spiritualità è un ‘attitudine presente in tutte le culture o esistono culture più portate alla spiritualità?

La spiritualità è presente in ogni essere umano e in ogni cultura, perché gli esseri umani sono tutti tagliati da una stessa stoffa. La spiritualità è una nostra possibilità, che non ha soltanto ricadute intimistiche ma ha anche ricadute sociali perché rende possibile un rapporto diverso con gli altri, un rapporto di parole dette e ascoltate, un rapporto dove l’io si fa da parte e ci permette un po’di ascolto in più.


Qabbalà e economia di giustizia

intervista a Haim Baharier

Sosteneva un grande maestro della tradizione qabbalistica: «La verità va perseguita e l’intelligenza deve essere al servizio della verità. Quando però l’intelligenza contraddice la verità, l’intelligenza non va né piegata né soffocata. Occorre dire non so, e studiare». È un ritorno allo studio quello invocato da Haim Baharier, contropelo rispetto a una moda dilagante che vede oggigiorno vedette e rockstar ricorrere alla Qabbalà, all’inseguimento di promesse magiche che nel nostro Occidente in grave crisi si accaparrano legittimità. La Qabbalà, si origina nel testo biblico, il quale, spesso meglio del percorso scientifico, sa dare spazio all’immaginazione, sa creare luce, comprendere un enigma. Si tratta di scorgere un percorso tra le boe senza mai considerarle punti fermi, acquisiti una volta per tutte. Si può annegare nelle certezze o aprirsi alla pluralità.

Haim Baharier nato a Parigi nel 1947, è figlio di genitori di origine polacca reduci dai campi di sterminio.

Allievo del Maestro Léon Askenazi e del filosofo Emmanuel Lévinas. Matematico, psicoanalista, è considerato tra i principali studiosi di ermeneutica biblica e di pensiero ebraico.

È visiting professor in diverse facoltà italiane (scienze della formazione, sociologia, psicologia, arte) e ospite in convegni mondiali. Ha fondato il Centro Binah per la formazione manageriale a Milano. Consulente di capitani d’industria, gli interventi e i percorsi da lui elaborati si fondano sull’approccio ermeneutico. Baharier opera anche nel campo dello sviluppo delle abilità cognitive.

Ha pubblicato La Genesi spiegata da mia figlia (Garzanti, 2006), Il Tacchino pensante (Garzanti, 2008); Le Dieci Parole (San Paolo, 2011); Qabbalessico (Giuntina, 2012).

Qual è il significato della parola Qabbalà?

La Qabbalà è una parte della trasmissione ed è la parte ricevente della trasmissione. Per via della radice kabel con delle trasformazioni eticamente e linguisticamente legittimate Qabbalà si trasforma nella parola “raddoppiato”. Quindi la Qabbala è qualcosa che si moltiplica, che si sviluppa, perché ricevere una responsabilità. Qabbala è anche l’essere allievo, l’essere discepolo, ma al contempo è istituire il maestro, istituire la fonte, suscitarla. Questi sono valori sempre più difficile da trovare perché si tende a istituzionalizzare i ruoli, da una parte i maestri e dall’altra gli allievi. È interessante come nella tradizione ebraica, da cui si origina la tradizione cabalista, il saggio venga definito “allievo saggio” (talmid haham). Il concetto di raddoppio è quindi già da proiettare sul significato della parola Qabbalà, infatti dal momento in cui ricevo, non ricevo solo ciò che l’emittente ha emesso per conto proprio, ricevo ciò che ha emesso e a questo aggiungo la mia comprensione, la mia interpretazione.

Chi può studiare Qabbala? Se non sbaglio esistono diverse disposizioni.

In realtà bisogna capire queste disposizioni preconcettuali. Questi paletti sono stati messi dai cabalisti per prevenire eventuali derive. Purtroppo, troppi paletti non prevengono nulla, anzi credo favoriscano le derive, ed è quello che è successo. Il Nahmanides, cabalista e commentatore della Bibbia del 1100, parlò del segreto delle opere della creazione, suscitando l’interesse di molti. Dobbiamo però intenderci sul significato della parola segreto. Segreto (sod) nella tradizione cabalista, ha un significato particolare vuol dire ciò che verrà spiegato, ciò che verrà illustrato a chi accetta di seguire un percorso propedeutico. Questo significa che bisogna studiare, servono le premesse. Il segreto non ha nulla di misterioso, il segreto è ciò che mi si rivela attraverso una serie di propedeutiche.

Lei sostiene che è importante tornare a studiare per cercare la verità. Però si ha l’impressione che sia sempre più frequente la ricerca di scorciatoie?

Ho letto recentemente una recensione bellissima al mio ultimo libro Qabbalessico, il giornalista scrive però che nel libro c’è una certa morale un po’ semplice, alludendo alla morale semplicistica di Adorno. Ho adottato però questa brevità, questa ingenuità, per riuscire a trasmette ciò che è estremamente complesso. Anche al Festival della Mente ho parlato del sistema della mediazione che è particolarmente importante nello studio, e nello studio della Qabbalà.

Per mediazione intende l’aspetto narrativo tipico della cultura ebraica?

La narrazione ha un significato ben preciso, nella Bibbia si ha una parte normativa, e una narrativa, che sono abbastanza intrecciate. I maestri si interrogano moltissimo sul valore della parte narrativa. La narrazione è importante per due motivi, la narrazione permette ai figli di uscire dal destino dei padri, e la narrazione ci dà qualche idea delle motivazioni della parte normativa.


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)