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Racconto

Le Elisabettine Accomodate

di Ruggero Scarponi

Cibo da re, cibo per palati raffinati, le Elisabettine Accomodate. Una ricetta segreta con un piccolo, malizioso risvolto piccante. Il tutto contenuto in una storiella che mi raccontò un celebre chef napoletano alla fine degli anni ’70 del novecento.

- Allora – mi disse – lavoravo all’Hotel *** di Sorrento e modestamente ero uno degli chef più richiesti della “Costiera”. La mia specialità era rappresentata da questo piatto che avevo ereditato dal mio maestro, un siciliano, un certo Raffaele Mineo di Palermo, presso il quale ero stato apprendista. Me l’aveva insegnato così, come voleva la tradizione e cioè poco prima di morire e come persona di fiducia. Infatti, qualora non me ne fossi dimostrato degno, su di me sarebbe pesata una maledizione…e si sa che noi “del sud” a certe cose siamo piuttosto sensibili. Io, quindi, farò lo stesso con il mio successore, se Dio vorrà, altrimenti il segreto morirà con me. E sarebbe un peccato perché questo piatto non è solo un cibo superbo, ma un’esperienza dell’anima. La riuscita, però, dipende da una serie di fattori che vanno dalla giusta frollatura delle carni, rigorosamente miste, al sapiente dosaggio di alcune erbe aromatiche e alla precisione pignola del modellato e della doppia cottura dell’involucro di pasta. Molti hanno provato a imitarlo, riuscendo malamente. Al massimo hanno realizzato degli involucri di pasta ripieni di carni miste, ma senza grazia, senza mistero. E’ il mistero, infatti, il segreto della ricetta, quasi uscisse da una novella delle Mille e una Notte. Chi ha la fortuna di assaggiarla non può fare a meno di cogliere un gusto particolare che non assomiglia a nessun altro. Un gusto che sa di notti orientali, di lidi solitari, di fiori profumati. La storia di questo piatto sembra risalga alla metà del cinquecento. Si dice che fosse stato inventato da un certo Maso, un cuoco al servizio di una cortigiana palermitana, tale Elisabetta, in occasione di un banchetto offerto per festeggiare, diremmo oggi, la sua pensione. Donna Elisabetta, si ritirò dal “mestiere” essendo divenuta abbastanza ricca da garantirsi un’opulenta vecchiaia. E volle prendersi l’uzzolo di stupire i suoi tanti amanti con qualcosa che lasciasse di lei una memoria “diversa”. La donna aveva meditato a lungo, anzi aveva trascorso notti insonni al pensiero di come sarebbe stata ricordata una volta che si fosse ritirata sola nel suo palazzo. Sapeva bene come altre “colleghe” che avevano avuto la fortuna e l’intelligenza di ritirarsi ricche e ancora in buona salute, nonostante un cospicuo capitale e una dimora sfarzosa, fossero rimaste per tutti solo e soltanto... ahimè! Donna Elisabetta non si dava pace. Il pensiero che parlando di lei i suoi antichi amanti potessero utilizzare epiteti volgari, doppi sensi ecc. la tormentava. Aveva sufficiente realismo da non ambire a una vera rispettabilità ma almeno, ora che aveva raggiunto un’agiata maturità, che le risparmiassero certe definizioni, non proprio eleganti. Da un po’ di tempo accarezzava l’idea di essere ricordata come una “Cortigiana di gusto”. Di gusto, sì, questo avrebbe cambiato l’opinione dei suoi amici. Le sembrava quella una definizione azzeccata. Non tentava di nascondere ipocritamente il suo passato ma lo nobilitava piuttosto, accreditando l’idea di una donna capace di scegliere il garbo, la bellezza e le raffinatezze. Le venivano in mente i tanti uomini di genio e di gran classe che erano stati suoi fortunati ammiratori. Tutti convinti di aver ricevuto da lei soltanto un piacere prosaico, pagato generosamente non solo in denaro, ma anche in spirito e intelletto. Stavolta invece li avrebbe stupiti. Avrebbe donato loro, per la prima volta senza nulla pretendere, un piacere talmente elevato da farla ricordare come una donna speciale, una donna di gusto. Per questo aveva incaricato Maso, il suo cuoco personale di elaborare per il banchetto un piatto per il quale non avrebbe badato a spese. L’uomo, se necessario, avrebbe disposto di una cifra enorme per acquistare i più rari ingredienti, le spezie più costose e qualsiasi altra cosa pur di ottenere l’effetto desiderato dalla sua padrona.

Il buon Maso, compreso il disegno di Donna Elisabetta, non perse tempo e subito si dette a organizzare una cena che sarebbe rimasta nella memoria dei convitati. Scese nelle cantine del palazzo, dove sapeva che generazioni di cuochi avevano ammassato preziosi documenti fitti di antiche ricette. Al lume di candela passò un’intera nottata a spulciare tutto quel polveroso materiale composto da grevi tomi dalle robuste rilegature in pelle, rotoli di pergamene e persino da preziose raccolte redatte su fine carta d’Amalfi. Era alla ricerca di qualcosa di sensazionale. Finalmente, al mattino ne uscì fuori. Aveva gli occhi rossi per la polvere, l’insonnia e la scarsa luce alla quale aveva passato in rassegna decine di testi ammuffiti. Ma aveva quello che cercava, una ricetta ricavata da un antico codice arabo tradotto prima in greco e poi in latino. Maso non aveva studiato, ma qualcosa di latino sapeva per aver servito da giovane in una celebre abbazia dove aveva appreso quel tanto per comprendere le istruzioni sul modo di preparare l’antica ricetta.

Il giorno seguente sguinzagliò tutti i suoi aiutanti alla ricerca degli ingredienti necessari. Di persona andò a cercare quelli più rari, rifiutando di dare spiegazioni a chi gliene chiedeva.

Quando giunse finalmente il giorno fatidico, il bravo cuoco elaborò un menù che prevedeva di mandare in tavola il celebre piatto come ultima portata, prima dei dolci. Voleva gustarsi l’apprensione della padrona avendo mantenuto perfino con lei il segreto riguardo alla misteriosa vivanda. Passarono quindi in tavola, per scaldare l’ambiente, gli stuzzichini, composti da schiacciatine di farro e orzo da intingere nelle salse e poi gli antipasti di crostini di noci con salame accompagnati alle focacce di formaggio. Come primi, invece, furono serviti maccheroni al sugo d’oca e bigoli all’agliata. E poi la cacciagione, il pollame e la nobile arista… A questo punto Donna Elisabetta cominciò a pensare che il bravo Maso non fosse riuscito a preparare un cibo capace di sbalordire la compagnia. Già le sembrava di udire i commenti dei suoi invitati che la schernivano nella sua pretesa di farsi accettare come una dama rispettabile. In ogni sorriso di quei visi gioviali ma altezzosi scorgeva derisione e sarcasmo. Ma ecco che improvvisamente, quando i commensali satolli di cibo e di vini generosi inclinavano alle battute e agli scherzi via, via più salaci, alcuni servitori fecero il loro ingresso nella sala recando un gigantesco vassoio sul quale era stata montata una decorazione di fiori e rami profumati, in mezzo ai quali sembravano riposare serene e compunte delle eleganti pupazze di pasta ripiena, a somiglianza delle ninfe dei boschi. Fu lo stesso Maso ad annunciare il nome della nuova portata, nome coniato per l’occasione in onore della padrona di casa. Erano le Elisabettine Accomodate. Accomodate, perché compunte e serene, come delle gentildonne di rango. Agli invitati non sfuggì il senso di quella rappresentazione. I valletti di tavola servirono a ognuno una fetta del prelibato pasticcio. Dai piatti si sollevarono nuvole di vapore. L’intera tavolata fu attraversata da un profumo intenso come una brezza d’autunno e i palati furono gratificati da sapori mai provati. Per un istante calò nella sala un silenzio imbarazzato. Cessò ogni battuta e negli occhi degli uomini comparve un’espressione sbigottita. Poi quasi per un segreto accordo tutti si alzarono in piedi e dopo essersi inchinati in segno di ossequio e di rispetto resero omaggio a Donna Elisabetta e al suo cuoco fidato con un caloroso applauso.


Racconto d'altri tempi  

La felicità di Celestinu

Storie dell’altroieri

di Agnolo Camerte

Celestinu aveva una casetta ai margini del paese. Era solo, non aveva nessuno.

Viveva di stenti, tirava a campare, si arrangiava.

A guardarlo, sembrava uscito da un quadro di Van Gogh, se non fosse stato per un sorriso perenne che gli illuminava gli occhi e che lo faceva sembrare felice e contento.

Si vedeva camminare accanto alla sua somara Garbatina, vecchia e spelacchiata come lui. Garbatina trainava un carrettino con il quale Celestinu faceva piccoli trasporti.

Una volta caricava una bombola di gas, da recapitare ai casolari della campagna circostante, un pacco, una sacco di grano, di farina ecc.

Poche cose e non tanto pesanti per non affaticare troppo la somara sulle salite.

Celestinu ci parlava con la sua Garbatina che sembrava lo capisse, poiché ogni tanto gli rispondeva con sonori ragli che si sentivano da lontano.

Chissà, forse voleva riposare un po’ e addentare qualche ciuffo d’erba che gli appariva appetitoso.

Celestinu la lasciava fare , soprattutto se capiva , ad esempio, che alla casa colonica, sarebbero così arrivati verso l’ora di pranzo... Sapevano tutti e due bene quanto fossero generosi certi contadini. E che vino avevano! A Celestinu piaceva tantissimo. Ne divideva un po’ solo con la sua amata somara. Che lo reclamava, quando ce n’era, con certe ragliate ritmiche che Celestinu capiva al volo, se non era già ubriaco o addormentato sul carretto . Beveva più vino lui che una macchina da corsa.

Garbatina era una somara giudiziosa. Quando, al ritorno, sentiva che il padrone si era addormentato, pensava lei a portarlo a casa. Percorreva a memoria la strada del ritorno , fermandosi immancabilmente davanti alle sette osterie della cittadina. Le faceva tutte, non ne saltava una!

Una bella ragliata per svegliare il padrone, che scendeva, si andava a fare la sua bevutina (la foglietta) di vino , e ne divideva sempre un po’ con lei.

Poi, ripartivano per le prossime osterie davanti alle quali Garbatina si fermava senza esitazione.

Arrivati a casa, Garbatina si riposava in una ampia stalla che era tutta per se. Una reggia! Greppia piena, paglia pulita erano per Lei segno tangibile dell’affetto del suo padrone.

Lui dormiva sopra la stalla, in un pagliericcio di foglie di granturco, buttato la come un sacco.

Aveva una casa poverissima Celestinu, eppure sembrava molto felice, contento della sua vita con la sua somara. Appariva sempre allegro e soddisfatto.

   

Ma un giorno lo incontrarono mogio mogio, solo, senza il suo solito sorriso in faccia, addirittura sobrio e gli chiesero come và? E la somara?

Rispose tristissimo: “ eh... è morta! Sta stupida! ...mò che aveva mparato a magnà solo la paja!...”

Da allora non lo si vide più con il solito sorriso e la... solita sbornia... Quasi fosse in lutto.

Tuttavia portò la sua povertà dignitosamente, sino alla fine, arrivata non molto dopo quella della sua somara.


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)