f

Racconto

Memorie e Rovine

di Ruggero Scarponi

- Eh si! Amico mio – disse il professore mentre avanzava cauto, cercando di scansare pezzi di calcinacci e vecchi mattoni che ingombravano il sentiero sotto l’arco turrito che fungeva da porta del paese – si sa, chi viene qua da noi, nel Lazio, vuole andare subito a vedere Roma. E dagli torto! Roma “richiama”, si capisce!

- Naturale – assentii.

- Mio gentile amico – continuò il professore che si era fermato per fare una sosta, appoggiato con una mano al muro polveroso di una rovina – ascolti bene – disse ansante cercando di prendere fiato poiché il cammino in salita si era impennato e stava diventando faticoso – lei per esempio aveva mai sentito parlare, prima d’oggi, di Santa Maria di Galeria? Qui a due passi da Roma con la piccola chiesetta in stile gotico? No? E dell’antica Galeria? Ah, bene, non ne sa nulla. Giusto, sarebbe parso strano il contrario. Non è niente di che mi creda. A Roma c’è ben altro. Ma lo sa qual è la differenza? Lo sa perché non mi stanco di venirci e soprattutto di portarci gente come lei? Glielo dico subito il motivo...

Qui il professore però si arrestò un momento, prese un bel respiro, chiuse gli occhi e continuò a voce bassa quasi sussurrando.

- Lo sente questo profumo?

Istintivamente chiusi gli occhi anch’io come aveva fatto il professore e poi dopo averci pensato un istante, tirando su con il naso, dissi titubante:

- C’è... odore di fichi.

- Già - rispose il professore aspirando avidamente l’intenso effluvio emanante dai frutti maturi.

- Guardi un po’ sopra di lei.

Alzai lo sguardo e proprio sopra la mia testa notai a meno di un metro il ramo grigio-chiaro di un albero di fico che fuoriusciva prepotente dal muro di una vecchia casa. D’intorno c’era un groviglio di arbusti e di cespugli dai verdi intensi, quelli degli allori e dei corbezzoli, delle ginestre, dei lecci e delle querce e dei giovani pini dai tronchi color marrone chiazzato con gli aghi puntuti e diritti come gli aculei di qualche pianta spinosa.

- Queste sono rovine, sa, che crede? – ridacchiò il Professore. – A Roma le rovine sono, come dire, istituzionali. Hanno perso del tutto il “mistero della caduta”. In esse, chi le visita oggi, non avverte più la tragica grandezza della “fine”. Il “respiro maestoso del tempo”…Sembrano nate così, per essere ammirate come sono ora. Vede caro amico che già in epoca romana i templi, le colonne, gli archi, tutto sembrava predisposto per recitare al momento opportuno la parte che i secoli assegnano alle cose dell’uomo. Non era vera decadenza quella. Era tutta finzione a bella posta. Trasformazione piuttosto. Insomma era tutto un gran palcoscenico. Poi sono venuti i registi, infatti. Quelli incaricati di creare la messinscena. E allora ecco venir giù i Piranesi i Corot, e poi Goethe, Byron, …e il fascino misterioso del passato, ecc…Tutto un gran teatro amico mio, glielo dico io. Le cose stanno pressappoco così, prima Roma si è fatta bella di marmi, fregi, statue e architetture e poi passati i secoli invece di buttare tutto all’aria è come se avesse detto: “fossi matta”, con tutto quello che m’è costato! E allora cari turisti di tutto il mondo al prezzo di un biglietto intero vi do qualche “mezza porzione” e vi faccio pagare per nuovo, un tempio scoperchiato, una colonna smozzicata, un vecchio mascherone di fontana e così via…tutta roba che fa sognare, si capisce!

Ma non mi fraintenda, che altrimenti non l’avrei condotta qui. Era solo per dire che le rovine servono, eccome! Ma solo se uno vuole sentire il respiro maestoso del tempo, per altre cose non servono a nulla se non per ammazzare la noia del turista che se ne va in giro per non sa starsene a casa ad annoiarsi. Ma a Roma caro amico se vuole subire questa particolare suggestione non vada a zonzo per rovine, no. Lì le emozioni le vendono un tanto al chilo. Vada invece per conventi. Se ne meraviglia? Allora faccia la prova. Per esempio si faccia una passeggiata tra il Colosseo e San Giovanni in Laterano e vada a far visita a quelle suorine di clausura ai Santi Quattro, sono agostiniane, mi pare, e si faccia aprire l’Oratorio di S. Silvestro. Bussi alla finestra con la ruota, quella dove un tempo venivano abbandonati i “trovatelli”. Le daranno la chiave per accedere all’oratorio che loro, le suore, sono in clausura e non possono uscire e lei deve fare tutto da solo. Prende la chiave, apre l’oratorio, ci sta dentro il tempo che le pare e poi da bravo, riporta la chiave alla madre guardiana e se è persona sensibile, le lascia anche un’offerta che tanto le suore non gliela chiederanno di certo. L’Oratorio, dicevo. Ma non per quanto riguarda il contesto storico-artistico, di quello, se non è addetto ai lavori non capirebbe nulla. Si metta piuttosto in silenzio nell’angolo opposto al finestrone da cui giunge la luce del giorno. Faccia silenzio per favore, come le ho detto e possibilmente ci vada da solo. Se veramente è capace di far silenzio dentro di sé, allora a poco a poco lo avvertirà anche di fuori. Le pitture romaniche alle pareti non stanno lì solo per farsi ammirare, questo, sono in pochi a poterlo fare con vera cognizione, piuttosto se ne lasci riempire gli occhi, senza nessuna presunzione, con autentico abbandono, davvero, le sarà più facile perdersi nei labirinti interiori, per gustare nell’aria rarefatta e sospesa, la pienezza della solitudine. Allora scoprirà con sorpresa che in pochi posti al mondo la luce del sole sembra giungere da tanto lontano quanto nell’Oratorio di San Silvestro al primo mattino. E questa è proprio una di quelle suggestioni che io chiamo il “respiro maestoso del tempo”. Ci vada. Ne uscirà cambiato. Oserei dire più buono. Perché lì, i prescelti, imparando a conoscere il segreto del tempo diventano saggi. E solo chi diventa saggio ha qualche probabilità di diventare anche buono. Ma se vuole altre prove allora vada a trovare i Canonici a San Pietro in Vincoli, oppure i Domenicani a Santa Sabina o le Suore del Sacro Costato a Santo Stefano Rotondo. Non si meravigli amico mio. I preti e le monache sono rimasti gli unici, o quasi, che hanno cara la custodia del tempo. Forse per naturale inclinazione. Sta di fatto che presso qualche convento ti può ancora capitare di scendere la scala dei secoli in perfetta letizia e al riparo dalle volgari esibizioni commerciali. Ma prego, mi segua, - mi disse interrompendo la riflessione - sto facendo un sacco di chiacchiere inutili, mentre invece, siamo qui per visitare l’antico abitato di Galeria. Una città morta, lo sa? Da quanto? Non è molto chiaro, in proposito mancano dati sicuri. Chi dice a causa dell’invasione dei francesi ai tempi di Napoleone e chi invece a causa della malaria. La zona fino ai primi anni del novecento era paludosa. Fossi e acquitrini ovunque, acque stagnanti e zanzare. Potrebbe essere che i contadini locali sfiniti dall’anofele abbiano deciso un giorno ai primi decenni dell’800 di abbandonare tutto per un posto più salubre. Personalmente propendo più per questa ipotesi che per quella dei francesi invasori.

Il Professore tacque a questo punto, respirò profondamente e riprese il cammino.

Lo seguii per un tortuoso sentiero nella foresta di lecci, rovere e pungitopo. La vegetazione si era infiltrata ovunque tra le povere case dell’antico borgo di Galeria. Della vecchia chiesa dai muri sfondati, dai quali emergeva qua e là, tra mattoni smozzicati e residui di calcina secca, chiazze di un antico intonaco azzurrino, restava il campanile semi-diroccato ma ancora svettante al disopra della selva e contro il cielo blu scintillante.

Percorremmo l’intero periplo dell’abitato seicentesco. Entrammo in case e casette dalle mura sconvolte, dai tetti scoperchiati e colonizzate da una vegetazione rigogliosa e trionfante. In terra, tra arbusti e radici, c’erano a pezzi, sparse per ogni dove, antiche tegole rossastre macchiate del nero della pioggia combinata con l’humus terrigno e persino brandelli di povere cornici di stucco, in disfacimento, grigio e polveroso, provenienti da qualche nicchia di santi presso la chiesa o dalla casa di un artigiano. Una vecchia mola in pietra, bianca e levigata, testimoniava della presenza nel villaggio di un molino per la spremitura delle olive o per la macina dei cereali. Passammo oltre avidi di curiosità in quel viluppo di piante e muraglie cadenti. A mala pena si poteva scorgere ancora il tracciato di qualche via ma tutto appariva incredibilmente confuso, affiorante da un passato, fitto di veli e nebbie, di vapori e perdute memorie, quelle dei contadini, degli artigiani e di qualche curato di villaggio. Gente semplice, incapace e forse disinteressata a lasciare o a segnare le tracce del proprio cammino. Ma dalle case diroccate o dalla foresta di lecci e querce mi sembrava di cogliere incredulo la loro voce. Come richiami sempre uguali composti dalle parole gridate delle necessità quotidiane. Non si scorgevano da nessuna parte iscrizioni e nemmeno lapidi o monumenti ma solo si udivano evocati da chissà quali magie, i sospiri dei morti dimenticati, lasciati come panni stesi a seccare nel vento. Il professore che intanto si era allontanato girovagando qua e là, discese da un cumulo di detriti di quella che un tempo, forse, poteva essere stata una rimessa per gli attrezzi della campagna, o il ricovero di un asino. Lo aiutai. Era un uomo anziano e appesantito, ma negli occhi conservava una luce viva e lo sguardo era acceso. Ne fui commosso. Continuammo il giro percorrendo il perimetro esterno dell’antico abitato di Galeria. Resistevano ancora tratti di mura in mattoni di tufo ricoperti da muschi e capilvenere e in lotta da secoli contro un’incessante rete di edere rampicanti. Raggiungemmo in breve la sommità dell’antico abitato. Un alto sperone roccioso che si protendeva sulla campagna. In basso i campi di grano biondeggiavano e si estendevano fino al limite di una valle punteggiata da una lunga teoria di alberi scuri. Dietro, nella calma immobile di un mattino d’estate, scorreva lento e melmoso il torrente Arrone.


Racconto di altri tempi  

La Pista

di Agnolo Camerte

Muoviti! Vai a pestare i cartoni dentro la cassetta che è quasi piena. Tra poco passa Ivetto lo stracciarolo e li deve trovare pressati e legati! Carletto provvedeva malvolentieri a questo lavoretto, che però era da fare poichè il negozio produceva tanto cartone e cartoncino da buttare.

Suo padre era perentorio: si doveva fare ! Non si deve sprecare nulla –diceva- e citava un antico proverbio marchigiano “robba: non me buttà che io non te butto; temme tre di dopo che puzzo!”

Carletto eseguiva, ma non è che capisse fino in fondo……Ma a che serviva sto cartone?.....

E quel proverbio..Ma si! Non si deve sprecare nulla…Ed allora chiese al padre perché mai desse il cartone ad Ivetto. “Perché me lo paga-gli rispose- e poco per volta ci facciamo i soldi per comperare il maiale”. E poi ci facciamo la pista da Righetto? Certo! Rispose il padre. Allora pestare il cartone non fu più un lavoretto che Carletto facesse malvolentieri. Infatti, mentre pestava, ora pensava che quel cartone si sarebbe trasformato in salsicce, prosciutti, ciabuscolo ed in ogni ben di Dio. Del maiale infatti non si buttava proprio nulla, non era come il cartone…Valeva proprio la pena pestarlo anche perché da Righetto, per l’occasione, si faceva una gran festa.

   

Righetto abitava in una bella casa colonica sotto la città; era simpatico e bravissimo ad allevare e confezionare quei maiali neri, che “parava” (faceva pascolare) per il campo sotto le quercie, per far loro mangiare la ghianda. Così le carni erano più pregiate e la pista veniva buona. Il maiale veniva lavorato in una cucina enorme, con un camino enorme, tanto grande da contenere sotto la cappa, nelle gelide serate d’inverno, tutta la famiglia per scaldarsi e parlare.

Quando si faceva la pista quella cucina si trasformava come per magia. Diventava odorosa di spezie, di bucce d’arancia, di pepe; tutto sembrava cambiar sembianze, per via degli odori diversi che si sentivano fluire in giro. Sotto il camino riscaldato da un fuoco enorme bolliva il paiolo, per cuocere la coppa. Inevitabilmente la graticola era sempre in funzione, perché era necessario verificare la sapidità delle carni macinate. E Carletto era sempre li ad offrirsi volontario!.....Poi che dire del profumo di vincisgrassi che la vergara (la padrona) sapeva preparare con scientifica abilità….La cucina economica, (quella con i cerchi di ghisa) andava a tutta forza e faceva concorrenza ai profumi che provenivano dal grande camino. Si lavorava molto, la fatica era notevole, perchè il tritacarne girava con la forza delle braccia…Quando si doveva macinare la cotenna per farci i cacciatorini erano gli uomini più forti che si alternavano al tritacarne che diventava durissimo. Di carne ce ne era tanta da lavorare. Eppure nonostante tutto il da fare, gli uomini e le istancabili donne presenti, riuscivano a creare una atmosfera di grande allegria. Chi cantava le rime a sfottere, chi a batocco, chi declamava versetti satirici e tra un brindisi e l’altro, il lavoro del confezionamento dei salumi, procedeva con una velocità incredibile. Procedure di lavorazione frutto di una sapienza antica, tramandata per tradizione da padre in figlio. Quasi tutte le famiglie in inverno si lavoravano il maiale a casa. I raffronti poi si sprecavano la domenica in piazza, in attesa della messa. Sembrava si fosse in mezzo ad esperti norcini. Le spezie, il pepe nero di caienna, la noce moscata, l’uvetta passita, il tipo di sale, l’asciugatura dei vari tipi di salumi, erano gli argomenti che si sentivano discutere in piazza; allora a Carletto tornavano in mente gli odori di quello stanzone a casa di Righetto…

Il clima collinare secco era ideale per la stagionatura, che seguiva delle regole ben note a tutti. Se essa non veniva eseguita a dovere si rischiava di buttare via tutto. La cantina doveva essere molto asciutta, ben aereata, la temperatura costante, ma non dovevano esserci correnti d’aria.

Il Papà di Carletto aveva una cantina sotto il livello stradale, asciutta ed aereata. L’ideale per la stagionatura; infatti i salami suoi si diceva che fossero i migliori, anche perché il maiale nero di Righetto era pregiato.

Il maiale nero era molto ricercato, per le sue carni . Praticamente tutte le case coloniche ne allevavano più di uno. Oggi ce ne sono più pochi per le campagne, anche per via di una legge che ne limita fortemente l’allevamento . ‘E proprio vero che “summa lex summa iniuria”. Non conviene più al contadino fare il trattamento obbligatorio dei liquami, molto costoso per allevare quei pochi suini, che, per giunta, hanno una forte resa di lardo che vale poco.

Si rischia così di perdere l’allevamento di razze suine perpretato da secoli, considerate unanimemente tra le migliori del nostro territorio. Io confido tuttavia che la saggezza dei nostri allevatori saprà prevaricare tali difficoltà, conservando una nicchia di eccellenza straordinaria.

Chissà forse quel profumo di pista non sparirà….


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)