#130 - 1 giugno 2015
AAAAAATTENZIONE - Cari lettori, questo numero rimarrŕ in rete fino alla mezzanotte di martedi 31 dicembre quando lascerŕ il posto al n° 359 - mercoledi 1° dicembre 2025 - CORDIALI AUGURI DI BUON ANNO e BUONA LETTURA - ORA PER TUTTI un po' di HUMOUR - E' da ubriachi che si affrontano le migliori conversazioni - Una mente come la tua ŕ affascinante per il mio lavoro - sei psicologo? - No architetto, mi affascinano gli spazi vuoti. - Il mio carrozziere ha detto che fate bene ad usare WathsApp mentre guidate - Recenti studi hanno dimostrato che le donne che ingrassano vivono piů a lungo degli uomini che glielo fanno notare - al principio era il nulla...poi qualcosa č andato storto - una volta ero gentile con tutti, poi sono guarito.
Racconto

Il professore nella metafora

di Ruggero Scarponi

Mentre era alla finestra il professor Enrico Maiorani, fu scosso da un brivido. I suoi allievi in quel momento erano tutti intenti alla simulazione della prova scritta d’italiano mancando poco più di un mese agli esami di maturità. Improvvisamente l’anziano professore alla soglia dei sessant’anni o forse più, si sentì pervaso da una gioia intensa, un’euforia che gli spalancò gli occhi, gli allargò le pieghe del viso e quasi lo travolse spingendolo a canticchiare un motivetto che gli era entrato nella testa. Per fortuna riuscì a trattenersi e i suoi studenti non si accorsero di nulla. Per il professore, invece, tutto cambiò, in quell’attimo. L’aula grigia, spoglia e disadorna nella quale insegnava da più di vent’anni, gli divenne luminosa e accogliente. Gli studenti, dei quali una buona metà erano ragazze e di cui a mala pena ricordava i nomi, gli sembrò che fossero diventati l’emblema felice della giovinezza e anche il mezzo ritaglio di giardino che si poteva scorgere dalla finestra benché invaso da vecchie panche sfondate e da tristi armadi scoloriti gli apparve come d’incanto un angolo rigoglioso e fecondo in cui due palme rinsecchite che venivano su esili e sforzate dovevano rappresentare gli avamposti di una lussureggiante propaggine africana.

Enrico Maiorani si rese conto solo allora che probabilmente doveva essersi innamorato, per la prima volta nella sua vita. Volse allora lo sguardo bonario verso la decina di studentesse intente a scrivere. Ne fu intenerito e ne ammirò i leggeri movimenti delle teste che facevano ondeggiare i ricci e i boccoli come nuvole profumate e anche il candore delle mani impegnate nello sforzo di stringere le penne e gli ombrosi incarnati che appena si potevano cogliere dai visi concentrati e chini sui fogli da riempire. Provò un sereno e paterno sentimento d’affetto. E così appoggiato con una mano all’anta di una finestra, rivolse lo sguardo in alto nel cielo scintillante della primavera. Il pensiero lo condusse subito all’oggetto del suo amore. Era la prima volta e ne restò piacevolmente turbato.

Quel pomeriggio stesso si recò a farsi tagliare i capelli. Lì nel negozio di parrucchiere, trovò Lea la giovane manicure che da un paio di mesi si prendeva cura di lui. Era impaziente di abbandonare le sue grandi mani tra quelle morbide e affusolate della ragazza. Il sentimento nuovo che provava per lei era nato improvviso e inconsapevole. L’amore che il professore era abituato a trattare sotto il profilo della critica letteraria e che sapeva illustrare così bene ai suoi giovani allievi, anche se espresso metaforicamente, lo sorprese come un evento inaspettato, risvegliato forse dalle premurose cure di Lea, o perché no, dalla sua giovanile bellezza, al cui contatto sentiva di accendersi di passione e di un’energia nuova e vitale. La cosa un po’ lo spaventava, in verità, per il timore di apparire ridicolo, come uno che approdi fuori tempo massimo a dei lidi definitivamente tramontati. Così avvenne che un giorno cullato al dolce contatto con le mani di Lea, chiudesse gli occhi e spontaneamente mormorasse dei versi.

  • Che cosa sta borbottando Professore? – lo interrogò scherzosamente Lea, intenta al suo lavoro.
  • Mah! – rispose evasivo l’uomo – così, ho chiuso gli occhi e mi sono tornati alla mente certi versi che devo aver letto da qualche parte…
  • Una poesia! – esclamò la ragazza
  • GiĂ  una poesia – confermò il professore.
  • E non potrei ascoltarla? Mi piacciono le poesie.- Disse Lea.
    Il professore esitò un istante, non sapendo cosa fare. Da una parte ardeva dal desiderio di recitarle quei versi e dall’altra non voleva che altri ascoltasse, mentre invece il locale era pieno di gente.
  • Su professore – incalzò la ragazza – non si faccia pregare. Lo faccia per me.
  • Quand’è così… – assentì Maiorani – in fin dei conti è un po’ il mio mestiere, non faccio altro da una vita. Questi versi sono di Emily Dickinson.
    Fece una breve pausa e iniziò a declamare, prima quasi con un mormorio sommesso e poi, invece, prendendo coraggio e impostando la voce, con una certa sicurezza.
    Lea lo ascoltò estatica interrompendo per qualche istante il lavoro. Aveva gli occhi spalancati e la bella bocca, un poco socchiusa. Sentiva la voce calda e profonda del professore scenderle dentro, nell’anima, fino a quietarla.
    Quando Maiorani terminò, riconoscente, gli prese la mano che stava curando e la sfiorò con un bacio, sul dorso.
  • Mi ha commosso – si giustificò, vagamente impacciata.

La cosa andò avanti così per un paio di mesi almeno. Lui le recitava dei versi dei suoi poeti preferiti e Lea lo ascoltava incantata quasi rapita come in un sogno ad occhi aperti. Tuttavia il professor Maiorani, dopo molti tentennamenti, si convinse che forse era giunto il momento di farsi avanti e di dichiararsi in qualche modo.
Cosa più facile a dirsi che a compiersi, meditò, poiché era sempre possibile che avesse scambiato per amore una semplice devozione filiale, con tutte le imbarazzanti conseguenze del caso.

  • Il primo passo – pensò – è conoscere la sua famiglia, una volta entrato in casa sarĂ  piĂą facile.
    E l’occasione tanto desiderata non tardò a presentarsi, proprio in quei giorni, nell’imminenza della festa dell’Assunta. Lea, infatti, avendo compreso che il professore l’avrebbe trascorsa in solitudine si offrì d’invitarlo a pranzo, dai suoi.
    Maiorani accettò con entusiasmo e si dette a organizzare tutto con cura. Avrebbe portato dei fiori alla mamma di Lea, perché, si disse, era sempre importante fare una buona impressione sulla madre se si desiderava conquistare la figlia, e avrebbe portato anche un grande cabaret di pasticcini per dare all’incontro quel tocco di famigliarità indispensabile per stringere i rapporti.
    Con la stessa brama di un fanciullo che attende il Natale così il professore attese con ansia l’avvicinarsi della festa.

E finalmente il gran giorno arrivò. Il Professore giunse a casa di Lea con una buona dose di trepidazione. Per l’occasione aveva indossato il suo abito migliore. Alto, snello, canuto, ma assai distinto, faceva la sua bella figura, da vero signore. Fu accolto come un ospite di riguardo, sebbene cordialmente. Tutti si prodigarono per lui e in particolare Lea che s’incaricò di servirlo affinché non mancasse di nulla. I cibi preparati dalla mamma furono squisiti e forse un po’ troppo abbondanti, ma tutto si svolse in allegria e il professore impressionò i presenti con i suoi modi semplici e signorili al contempo.
Prima del dessert, pregato insistentemente da Lea si lasciò convincere a recitare alcune poesie, che naturalmente, si era preparato in anticipo. Quando ebbe finito di declamarle, la mamma di Lea aveva le lacrime agli occhi e la ragazza non la finiva più di gratificarlo con sguardi di tale dolcezza che il povero professore quasi si sentì mancare per l’emozione. Subito dopo in un’atmosfera gaia e festosa furono portati in tavola i pasticcini che Maiorani aveva acquistato nella migliore pasticceria del paese, quella sulla piazza. Un cabaret enorme pieno di ogni dolcezza. Tutti si fissarono sull’involucro che Lea prese a scartare delicatamente. Quando l’ultimo foglio di carta velina fu sollevato ne risultò alla vista un tripudio di colori e di profumi.
Il Professore se ne sentì orgoglioso quasi fosse stato egli stesso l’autore di quelle delizie e per un istante forse lo desiderò davvero. Esclamazioni di sorpresa e ammirazione accolsero il vassoio posto al centro della tavola.
Ma improvvisamente, a raffreddare gli entusiasmi, sortì fuori, chissà da dove, un molesto ronzio.
Un ronzio che percepito dapprima leggero e intermittente divenne via, via più deciso richiamando l’attenzione di tutti su un rigonfio cannolo alla crema. Una smorfia di disgusto si dipinse sui volti dei commensali quando increduli, si videro occhieggiare da dentro il cannolo da un grosso tafano nero.
Aveva ancora le zampette e le aluccie inzaccherate di crema pasticcera intanto che provava a prendere il volo senza riuscirci per poi finire miserevolmente a rotolarsi nello zucchero a velo di un diplomatico e nella glassa spessa e zuccherosa di una tartelletta alle noci nella quale, sprofondando, finì definitivamente inghiottito.

  • Che schifo! – esclamò qualcuno
  • Mamma mia – gli fece eco a fil di labbra Lea.
  • Questa poi! – mormorò attonito il professore.
    Tutto avvenne in pochi istanti sotto gli sguardi sbigottiti dei commensali.
    Qualcuno, prontamente, pensò bene di togliere dalla tavola l’ingombrante cabaret divenuto oramai la tomba dello sgradevole insetto.
    Il resto del pranzo fu un penoso tentativo di far passare il tempo necessario per dar modo al professore di congedarsi quanto prima.
    Il tafano aveva distrutto per sempre il sogno d’amore di Enrico Maiorani. Un banale incidente, dopo tutto, che però il professore interpretò come una crudele metafora di cui sentiva di essere non solo letterariamente, l’oggetto.
    Qualche mese dopo, durante una passeggiata, fermatosi a discorrere con un vecchio amico, seppe che la bella Lea era prossima alle nozze.
  • E chi è il fortunato? – chiese con viva curiositĂ .
  • Come, non lo sai? – esclamò il suo amico – è il pasticcere, no? Quello della pasticceria sulla piazza, la migliore del paese.
  • Naturalmente – replicò Maiorani – naturalmente, avrei dovuto immaginarlo.
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