#368 - 1 novembre 2025
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Teatro

Alexander Soddy e Mario Martone guidano un riadattamento dal Macbeth di Verdi,
prediligendo atmosfere fantastiche ed esistenziali,
tra richiami ad Anselm Kiefer e panoramiche da Gaza.

Macbeth verdiano

di Giuseppe Simone Modeo

Macbeth verdiano

È andato in scena, nella sala maggiore del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, il Macbeth di Giuseppe Verdi diretto da Alexander Soddy con la regia di Mario Martone.
L’evento era particolarmente atteso sia per l’impegno profuso dal teatro che per la circostanza storica che vede nella città di Firenze il luogo del debutto assoluto, anzi, della produzione e realizzazione dell’opera.

L’impresario del teatro Alla Pergola, nel 1847, mise a contratto Verdi per la produzione di un’opera che esulasse dai consueti temi degli amori impossibili o delle patrie tradite, per occuparsi invece di un genere di gran moda in tutta Europa ma sconosciuto in Italia, che lo stesso Verdi ebbe definire «Genere fantastico». Verdi accarezza immediatamente l’idea di cimentarsi con Shakespeare e chiede al proprio librettista di ridurre le cinque parti dell’omonimo dramma in quattro atti. Nasce così il Macbeth, che sarà poi sapientemente rimodulato dallo stesso Verdi per l’edizione di Parigi nel 1865, proprio quella a cui abbiamo recentemente assistito e della quale qui riferiamo.

Macbeth verdiano

L’interesse destato dal Macbeth che ha aperto la stagione 2025-2026 del teatro dell’opera del Maggio Fiorentino non risiede certo nella reminiscenza storica. L’attuale sovrintendente sta inanellando una serie di successi e di riconoscimenti sia sul piano culturale che su quello della risposta del pubblico e questa apertura conferma lo stato di grazia del Teatro fiorentino.
Con affascinante aderenza all’immaginario verdiano e shakespeariano, Martone e Soddy progettano e realizzano un’azione drammatico-musicale costantemente inscritta in un universo nero, all’interno del quale si concretizzano, anzi si personificano i demoni che ingenerano e accrescono il desiderio di potere degli umani e i fantasmi della coscienza, con i mostruosi rimorsi che anche negli esseri malvagi si formano, rendendo impossibile l’ordinata prosecuzione del vivere e vanificando gli agi che derivano dalle posizioni immoralmente conseguite e mantenute.

Macbeth verdiano

La regia della produzione fiorentina accoglie il buio del sonno della ragione e lo organizza in architetture inesistenti che nulla sorreggono, mentre le masse compaiono e scompaiono attraverso porte luminose minimaliste, come soglie tra mondi vuoti. Quando qualche luce si accende è quasi un passaggio repentino che nulla dissipa e nulla risolve. L’ingresso di un vero cavallo rompe il clima di astrazione con un urto di realtà e ribadisce che la natura qui non è né madre né figura neutra mentre è sovente ostile tentatrice dell’umano.

Macbeth verdiano

Martone, da regista poliedrico, fa uso di molteplici elementi espressivi. In questo Macbeth coinvolge particolarmente le immagini riflesse o proiettate, le superfici specchianti, le proiezioni, i monitor, senza intaccare l’unità estetica della rappresentazione.
Di notevole affetto l’enorme videowall in cui Lady Macbeth, avvolta dalle fiamme rosse del suo costume, procede in una ascensione rituale ed emblematica come in un video di Bill Viola. Riferimenti all’arte contemporanea non si limitano a questo momento ma proseguono con le citazione delle opere più intense e storiche di Anselm Kiefer nei fondali che precedono i video sulle rovine di Gaza.

Macbeth verdiano

In lieve contrasto con l’idea registica, i pochi interventi di Mimmo Paladino, il quale non pare riuscire a immergersi nelle profondità shakespeariane e verdiane, limitando a citarsi e, soprattutto, nel grande sipario iniziale, mal interpretando il dramma come azione di morte mentre esso rappresenta una potente lezione di vita individuale e di politica.

Macbeth verdiano

Drammaturgicamente, la regia sceglie di non spiegare ma far apparire attraverso vettori visivi, soglie, specchi, file, alture che scolpiscono la logica della predizione e del trauma, funzionando proprio perché non intende illustrare Shakespeare ma lo traduce in una grammatica scenica capace di ospitare nero, silenzi, tragedia e rimorsi. Complessivamente un’apprezzabile prova, quella di Martone, anche se non la sua migliore.
E ora, i protagonisti dell’azione scenica. Vanessa Goikoetxea disegna una Lady di indubbio fascino vocale e straordinaria presenza scenica. Essa non tenta neppure di conformarsi allo stereotipo che esige di una voce quasi sgradevole o addirittura brutta. Goikoetxea presta alla Lady una voce che aderisce al convinto desiderio verdiano di un canto che serva la parola più che il timbro. La sua voce ingenera sensi di una drammaticità che incide la sillaba e porta in superficie il tragico shakespeariano. Abbiamo goduto di una vocalità che non seduce, se non dopo aver ferito e convinto – e questo a Verdi sarebbe piaciuto molto. Goikoetxea sa cantare, sa cantare molto bene, sa portare la propria voce in quella zona e in quegli attimi che precedono la bellezza contemplativa per saggiamente dirigerla verso la zona dell’urlo trattenuto e sospeso.

Macbeth verdiano

Nel ruolo del titolo, Luca Salsi dà corpo e voce a quel Macbeth più verdiano che shakespeariano che il maestro di Busseto avrebbe voluto al debutto dell’opera e che tutti noi vorremmo sempre sentire. Mai estremamente debole, mai realmente forte, Salsi disegna l’intrinseca debolezza di chi vuole fare e sopraffare attraverso l’inganno e la truffa. Di assoluto rilievo la sua capacità di mantenere connotazioni di debolezza, sempre prive di toni e di pentimento, come nella scena del delirio. Vocalmente sempre aderente ed evocativo, anche se qualche volta è parso dimenticare l’indicazione verdiana a mettere la sordina.

Macbeth verdiano

Dal podio Alexander Soddy scolpisce il dramma verdiano in modo lucido e consapevole; con maestosa parsimonia, egli sembra seguire alla lettera le consegne del compositore – privilegiare il Poeta al Maestro – con tempi che respirano il verso, dinamiche musicali che incorniciano senza sovrastare e quando l’orchestra si espande lo fa come in ginocchio davanti alla parola poetica ed educatrice. Ne nasce un paradosso felice, una sordina che amplifica, un’onda lenta e bassa che lascia emergere magnificamente la risonanza interiore del dramma.

Macbeth verdiano

Nessuna lode è bastevole a rappresentare la perfezione musicale e scenica del coro che in quest’opera è il terzo protagonista. Speriamo che lo stato di grazia artistica del Teatro del Maggio, perduri e si mantenga sempre sui livelli espressi dalla ultima produzione.

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