#360 - 1 febbraio 2025
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Cinema

I dimenticati - Una iniziativa di "Diari di Cineclub"

Cecile Aubry

Diari di Cineclub - I dimenticati - 116


Di

Virgilio Zanolla

Cecile AubryCecile Aubry

La storia del cinema annovera casi di sceneggiatori divenuti registi di spessore (vedi Billy Wilder), e di sceneggiatori divenuti attori; ma sono davvero pochi i registi e gli attori che, a un dato momento della loro carriera, si sono mutati in sceneggiatori di successo: uno di questi è l’attrice che propongo oggi, Cécile Aubry, la cui popolarità acquisita negli anni Quaranta e Cinquanta davanti alla macchina da presa è stata superata da quella guadagnata nei Sessanta come scrittrice e autrice di soggetti e sceneggiature di serie televisive per ragazzi tratte da suoi romanzi, trasmesse con ottimo esito anche in Italia. Sebbene come attrice abbia preso parte solo a una decina di film, la Aubry è una figura d’interprete del cinema di quegli anni che non si può dimenticare: da noi è poco considerata, benché una di queste pellicole sia anche di produzione italiana, diretta da un regista pugliese e girata nel nostro paese.

Cecile Aubry

Anne-José Madeleine Henriette Bénard, questo il suo nome al secolo, era nata a Parigi, nel 16° Arrondissement, il 3 agosto 1928, da una famiglia alto-borghese: il padre, Lucien, ingegnere minerario, era specializzato in liquidazioni aziendali, la madre, Marguerite Candelier, un’egittologa. Anne-José frequentò i migliori licei parigini, prese lezioni di pianoforte, studiò danza classica con Roland Petit e disegno all’accademia di Beaux-Arts. Debuttò nel mondo dello spettacolo come ballerina, mentre ancora studiava recitazione al Cours Simon, la prestigiosa scuola d’arte drammatica fondata nel 1925. Diciannovenne, esordì nel cinema in una particina nella commedia Una notte al Tabarin (Une nuit à tabarin, 1947) del regista ceco Karel Lamač.

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Nell’occasione d’una recita Anne-José venne notata dal regista Henri-Georges Clouzot, che cercava l’interprete della sua Manon. La tragica vicenda immortalata dall’abate Antoine François Prévost nel romanzo Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut (1731) è quella di una giovane donna perduta e del suo appassionato amante. All’epoca in cui se ne interessò Clouzot essa era già stata trasposta in almeno cinque fim, il primo del 1911, l’ultimo, quello diretto nel ’40 da Carmine Gallone, protagonisti Alida Valli e Vittorio De Sica; senza dire delle opere liriche musicate da Daniel Auber (1856), Jules Massenet (1884) e Giacomo Puccini (1893). Nella non ancor ventunenne Anne-José, quasi del tutto priva d’esperienza sul set e alla prima parte da interprete, Clouzot vide il personaggio che cercava: piccola e piuttosto minuta, fluenti capelli castani, caruccia senza essere bella, con un volto da bambola di biscuit e occhi pungenti come spilli, svelta, vivace, dalla pronta loquela... la sua Manon era lei. Le fece imbiondire i capelli, le spiegò con attenzione il personaggio, le insegnò come risultare aderente al ruolo e la portò dalla couturière Madame Carven, alias Carmen de Tommaso, che vestiva sua moglie, Vera Clouzot, e altre principali attrici dell’epoca: Anne-José, ribattezzata per l’occasione Cécile Aubry, risultò perfetta. Rispetto al romanzo di Prévost, Clouzot aveva apportato significative varianti: la vicenda non si svolgeva più nella Francia dei primi decenni del Settecento ma in quella contemporanea tra gli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale e il dopoguerra; Des Grieux non era un giovane nobile bensì un partigiano in armi, che conosceva Manon tra un gruppo di sfollati; il loro amore era intenso e sincero, salvo che tornati alla vita civile, incapace di vivere nella penuria, lei lo tradiva spesso per procurarsi e procurargli degli agi. Finché ròso dalla gelosia, Des Grieux (un grande Michel Auclair) uccide il fratello di lei León (Serge Reggiani), che con l’inganno l’aveva rinchiuso per impedirgli di seguirla. Per sfuggire all’arresto, per lui non c’è che la fuga in Algeria a bordo d’un mercantile che trasporta clandestini, accanto all’inseparabile Manon, che tutto gli perdona. Rispetto al romanzo, non è lei a essere trasferita in Luisiana in quanto prostituta, bensì lui a sottrarsi alla cattura rifugiandosi nell’allora colonia africana. Una volta sbarcati però, il camion che dovrebbe portarli al sicuro resta senza benzina lungo il tragitto, costringendo a una lunga camminata il gruppo di disperati che trasportava; mentre la colonna dei profughi attraversa il deserto viene attaccata da una banda di predoni cammellati che li uccide per derubarli: Manon viene ferita a morte da una fucilata, e a Des Grieux, che è forse l’unico sopravvissuto a quella razzìa, non resta che trascinare il suo corpo esanime nella sabbia fino a seppellirla tra le dune.

Cecile Aubry

Calandosi nel personaggio di Manon Cécile mostrò un’eccezionale intensità drammatica, davvero sorprendente da parte di un’attrice quasi esordiente: secondo Clouzot, seppe incarnare con perfetta aderenza la donna-bambina, in possesso di «un’ingenuità perversa tanto venale quanto sessualmente vorace». Indimenticabile la scena finale nel deserto, quando Des Grieux trascina il cadavere di Manon e lo seppellisce nella sabbia: un momento di straordinario vigore espressivo; non è un caso se presentato nel 1949 al Festival di Venezia, Ma non venne premiato col Leone d’Oro. Anche per Cécile il successo fu clamoroso, conferendole celebrità internazionale. Hollywood la reclamò subito, promettendo di farne una star: sicché lei firmò un lucroso contratto con la 20th Century Fox e si trasferì coi genitori nella Mecca del cinema, dove il suo volto apparve sulla copertina del settimanale “Life” e su altri rotocalchi: a curare la sua immagine negli Stati Uniti furono proprio Lucien e Marguerite Bénard.

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Poco più di due mesi dopo usciva La rosa nera (The Black Rose, 1950) di Henry Hathaway, una pellicola d’avventura ambientata nell’Inghilterra del Duecento, dov’ella ebbe il ruolo di Maryam e lavorò accanto a mostri sacri come Tyrone Power, Orson Welles e Jack Hawkins. Oltreché in Gran Bretagna, il film fu girato per buona parte in Marocco: qui Cécile conobbe il trentunenne Si Brahim, primogenito del pascià di Marrakech Thami El Glaoui: i due s’innamorarono, ma all’epoca lui essendo sposato, presero a frequentarsi segretamente a Saint-Cyr-sous-Dourdan, 45 km a sud-ovest di Parigi, presso un antico mulino da lei acquistato e ristrutturato (Le Moulin bleu, in riva al Rémarde).

La rosa nera rimase l’unico film hollywoodiano di Cécile, che come molti altri attori europei prima e dopo di lei non si conformò con quello stile di vita e presto fece ritorno in patria. Qui venne chiamata dal regista Christian-Jacque per lavorare nel primo film a colori di produzione francese, la commedia fantastica Barbablù (Barbe Blaue, 1951), dove interpretò Aline, la settima e ultima moglie del terribile protagonista, reso simpatico dall’attore che lo impersonava, Pierre Brasseur. La sua conoscenza di più lingue straniere le permise d’interpretare il film anche nella versione tedesca, Blaubart, accanto ad Hans Albers.

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Il successivo impegno professionale della nostra attrice fu la commedia Piovuto dal cielo di Leonardo De Mitri (’53), una coproduzione italo-francese su soggetto di Cesare Zavattini: la storia d’un ladro dal cuore d’oro, Renato (Renato Rascel) e di Maria (Cécile), una ragazza da lui derubata che lo aiuta a ritornare onesto. Seguì il musical Tanz in der Sonne (’54), produzione germanica scritta e diretta da Géza von Cziffra girata tra Amburgo e l’Andalusia: dove Cécile impersonò Nanon, una ballerina solista, ed ebbe quali partner l’attore carrarese Franco Andrei e Ursula Justin (come cantante apparve anche Teddy Reno).

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Nel ’54 ella lavorò nel film di produzione ispano-francese La ironía del dinero (in Francia, Bonjour la chance): commedia in quattro episodi, legati dalla sorte di una valigetta piena di soldi, diretta da Edgar Neville (Sevilla, Salamanca e Toros) e da Guy Lefranc (Francia) e interpretata da alcuni dei migliori attori spagnoli; nella parte di se stesso, in Toros fu presente lo scrittore Ernest Hemingway. Cécile vestì i panni di una turista americana in Sevilla. Vari problemi ritardarono l’uscita della pellicola (girata gran parte a Madrid e nelle altre due citate città spagnole), proiettata in Francia solo nel ’57, e in Spagna addirittura nel ’59. Nel frattempo, non accreditata, ella si era prestata a un breve cameo apparendo come se stessa nella commedia C’est arrivée à 36 chandelles diretta nel ’57 da Henri Diamant-Berger.

Il 19 settembre 1953 Cécile aveva esordito in teatro con una parte nella commedia Ô, mes aïeux! del drammaturgo belga José-André Lacour, andata in scena al Théâtre de l’Œuvre di Parigi con la regia di Jean de Poulain e tra gl’interpreti Pierre Mondi. Ripeté l’esperienza due anni dopo, impersonando la protagonista Carole Blandish ne La Chair de l’orchidée, una commedia noir che Frédéric Dard e Marcel Duhamel avevano tratto dal thriller di James Hadley Chase Niente orchidee per Miss Blandish; la regia era di Robert Hossein, tra i protagonisti c’era Roger Hanin. La prima dello spettacolo avvenne il 2 aprile ’55 al parigino Théâtre du Grand-Guignol.

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L’11 maggio 1956 Cécile sposò nella moschea di Parigi Si Brahim El Glaoui El Mezouari, appena divenuto pascià per la morte del padre; nozze provvidenziali, perché l’attrice era ormai al nono mese di gravidanza, e quindici giorni dopo, a Choisi-le-Roy, dette alla luce il suo unico figlio, Mehdi, abbandonando la sua professione per fare la donna di casa. Ma il matrimonio non funzionò fin da subito: con la fine del protettorato francese e la proclamazione a re del Marocco di Mohammed V, Si Brahim, fortemente ostile al monarca come suo padre prima di lui, perse i cospicui beni che aveva nel Maghreb e si esiliò nella capitale francese. I suoi rapporti con la nuova famiglia si fecero saltuari, tanto che il 17 giugno 1959 la coppia finì consensualmente per divorziare. Si Brahim morì appena cinquantaduenne, nel 1971: nonostante abitassero a meno di cinquanta km di distanza, Mehdi vide il padre in poche circostanze.
Il bambino crebbe con la madre, sviluppando con lei un fortissimo rapporto d’affetto. Cécile non tralasciò nulla per assicurare al figlio la serenità familiare e finanziaria: tornò perfino davanti alla macchina da presa, prendendo parte a quello che fu il suo ultimo lungometraggio: lo spionistico L’espionne sara à Noumea di Georges Péclet, girato nel 1960 ma apparso soltanto tre anni dopo Donna attiva e pragmatica, intraprese la nuova attività di scrittrice per l’infanzia: e come un moderno re Mida, mutò in oro i suoi romanzi, che ebbero tutti grande successo, a partire da Pick et Nicholas (Hachette, 1958) e Le Trouble des eaux (Oliven, ’59), proseguendo negli anni Sessanta con la serie di Poly (22 libri per la Bibliothéque rose di Hachette, 1964-86) e con quella di Belle et Sébastien (6 libri per la Bibliothéque verte di Hachette e per Julliard, 1966-77), più altri titoli tra cui Le Jeune Fabre (Presses Pocket, ’73) e la mini-serie di Hervé (2 libri per la Bibliothéque verte, Hachette, 1975-77), mettendo in evidenza rilevanti doti letterarie, molto apprezzate dalla critica oltreché dal pubblico.

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Gran parte di queste opere vennero da lei sceneggiate per la televisione. Col piccolo schermo cominciò nel ’58, producendo 5 cortometraggi con Le storie di Cécile: fiabe da lei scritte e illustrate (aveva anche spiccatissime qualità come grafica e pittrice) per leggerle all’allora duenne Mehdi davanti alla telecamera. Nel ’61, sempre col figlio, interpretò il cortometraggio Le Petit Mouton de Peluc di Jean Tourane. A partire da quell’anno scrisse, produsse e diresse la serie Poly, basata sull’amicizia tra un bambino, Pascal (interpretato da Mehdi) e un cavallo pony: 9 episodi trasmessi con grande riscontro tra il 1963 e il ’73 (e, nel ’68, anche dalla Rai); in questo caso, sviluppando le storie del personaggio attraverso la sceneggiatura, e solo in un secondo tempo facendone romanzi. Esito ancora superiore incontrò la serie Belle et Sébastien, che racconta dell’amicizia tra un ragazzo, Sébastien (ancora suo figlio Mehdi, peraltro bravissimo) e la cagna da pastore Belle, e si svolge in un paesino di alta montagna dei Pirenei: ripartita in tre parti ciascuna di 13 episodi, trasmessi rispettivamente nel 1965, ’68 e ’70. In questa serie, oltre a dirigere alcuni episodi, lei si ritagliò il ruolo della narratrice. Nel ’73 scrisse e diresse un terzo sceneggiato televisivo, in 13 episodi, tratto dal suo romanzo Le Jeune Fabre: la storia dell’adolescente Jérôme Fabre (Mehdi nella sua ultima interpretazione televisiva), che dalla provincia si reca a Parigi in cerca del padre pittore; un merito di questa serie fu il mettere in evidenza la giovane attrice Véronique Jannot. I libri e le trascrizioni televisive di Cécile ebbero grande risonanza anche fuori Francia: basti dire che ispirandosi a Belle et Sébastien, nel 1981 la MK Company produsse una serie televisiva d’animazione in 52 episodi trasmessa con successo in Giappone dall’emittente NHK, e in Italia da Antenna Nord, e tra il 2013 e il ’18 una produzione francese realizzò una trilogia cinematografica tratta dalle stesse storie - interpretate dal piccolo Félix Bossuet e ambientate però nelle Alpi francesi - che ebbe grandissimo seguito anche in vari altri paesi.

Cecile Aubry

Dopo che suo figlio, ormai cresciuto, proseguì per suo conto saltuariamente la carriera d’attore, sceneggiatore e regista, Cécile continuò a vivere al Moulin Bleu e diradò gl’impegni artistici, senza tuttavia abbandonare la scrittura: nel 1990 fornì il soggetto, che poi sceneggiò con Jean-Luis Roncoroni, del cortometraggio drammatico Encontro em Lisboa, diretto da Claude Boissol. Colpita da tumore ai polmoni, si spense al centro ospedaliero di Dourdan il 19 luglio 2010, all’età di ottantun anni, undici mesi e sedici giorni. È sepolta a Parigi, al cimitero di Montrouge, nel 14° Arrondissement, accanto alla madre. In suo onore, la scuola elementare di Saint-Cyr-sous-Dourdan porta il suo nome.

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