La regista ungherese Ármin Szabó-Székely adatta perfettamente il dramma di Henrich Ibsen
in ottica contemporanea, mettendo a nudo il lato oscuro della bramosia del successo
Solness e il demone del successo: un Ibsen in chiave contemporanea
Solness
di Giuseppe Distefano per exibart
Il costruttore Solness (1892) un dramma dell’estrema maturità di Henrik Ibsen in cui tutti i temi esistenziali e personali dell’autore norvegese paiono esasperarsi in una trama simbolica complessa e tortuosa, quasi ossessiva.
A riproporlo oggi, alla sua terza regia come artista associata del Teatro Stabile di Torino, Kriszta Székely.
Dopo Nora e Hedda Gabler, ecco – ridotto al solo nome – Solness, «Una storia ibrida – dichiara Székely – che si traveste inizialmente da thriller psicologico, poi, aggiungendo elementi inconsci incredibilmente densi, diventa un discorso misterioso sull’arte, sul prezzo della creazione, sui desideri profondi e le paure, e in definitiva sul significato della vita».
La versione che la regista ungherese ci offre nell’adattamento di Ármin Szabó-Székely, con una messinscena intelligentemente moderna, agile, chiara, pienamente consona al testo ibseniano, sembra scritta oggi. Mantenendo tutti i livelli di lettura dell’originale, l’adattamento rilegge con sguardo contemporaneo tutti i simbolismi di cui è pregno il testo, premendo sul concetto di successo: «come sono legati tra loro l’ego, la realizzazione, la creazione e la libido? Cosa bisogna sacrificare per raggiungere il successo?».
Al centro del dramma, come di altre opere ibseniane, c’è un uomo, Solness, il quale, di estrazione povera, senza un titolo di studio, né mezzi, è diventato il più importante costruttore del paese. Un imprenditore che però ha costruito il suo successo su un oscuro segreto: l’incendio della casa famigliare della moglie, condannandola alla follia e procurando indirettamente la morte dei loro due bambini. A causa di questa tragedia Solness è preda delle proprie angosce, «Un vivo incatenato a una morta» che conserva intatte le camere dei figli che non ci sono più e teme i giovani che potrebbero scalzarlo dal suo potere (ecco il tema della guerra fra vecchi e giovani, fra il maturo e affermato imprenditore e il giovane Ragnar alle sue dipendenze).
In questo mondo chiuso a portare un’aria fresca è una figura tipicamente ibseniana, di nome Hilde, una fanciulla istintiva, ferina, solare, che appare proprio la sera prima che l’architetto riceva un premio alla carriera. Riemersa dopo tanti anni, carica di aspettative e vertigine, si ripresenta cercando invano di ritrovare l’uomo arguto e sognatore di una volta, dal quale è stata baciata da bambina con la promessa di un castello che ora lei viene a reclamare.
Ma il demone della giovinezza, contrapposto a quello della vecchiaia, si rivela fatale per Solness. Le altezze cui lei lo spinge gli sono ormai precluse e lo faranno inesorabilmente precipitare. In questo groviglio di turbamenti lo guidano i demoni, le voci, l’angoscia, quasi che la storia avvenga nella sua testa. Ma quella ragazzina lui l’ha davvero baciata, o, come afferma, ha solo desiderato di farlo, e il desiderio ha assunto valore reale? E l’incendio è davvero avvenuto per una sua negligenza o egli ha solo desiderato che avvenisse per costruire sul terreno le sue case?
Il nucleo del testo è proprio questo, il desiderio che pesa quanto un’azione concreta, ovvero la gabbia di responsabilità morali che Solness si crea per coltivare i propri sensi di colpa, dovuti che siano a un impulso pedofilo o alla distruzione della pace coniugale. Un grande, luminoso plastico campeggia sul palcoscenico appena rialzato il quale, insieme a un tavolo e relativi oggetti di uno studio d’architettura e dei piccoli pannelli al neon che lo circondano, è contemporaneamente ufficio e casa dove si muovono i personaggi, a volte sostando ai bordi pronti a entrare nella sequenza.
Un ritmo sostenuto caratterizza l’allestimento, con felici passaggi e soluzioni sceniche che simboleggiano diversi nodi della storia. Fra tutte il bellissimo finale, quando Hilde accoglie con entusiasmo l’idea di Solness di arrampicarsi sulla torre di una casa che sta ultimando, per appendervi una corona, proprio come quel lontano giorno in cui si erano incontrati. Ma appena fissata la ghirlanda, preso dalle vertigini, precipita nel vuoto. Solness, innalzato insieme a Hilde mediante dei cavi, rimane sospeso in aria invece che schiantarsi a terra. Hilde non vede la rovina ma soltanto la sublimazione.
Ancora una volta una scommessa vincente questa produzione dello Stabile torinese grazie soprattutto alla magnifica compagine attoriale messa in campo: dal protagonista del titolo Valerio Binasco, ad Alice Fazzi, Mariangela Granelli, Marcello Spinetta, Lisa Lendaro, Laura Curino, Simone Luglio.