#351 - 11 maggio 2024
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Cinema

I dimenticati - Una iniziativa di "Diari di Cineclub"

Luise Rainer

I dimenticati, Diari di Cineclub - 108.
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Di

Virgilio Zanolla

Luise Rainer

Non si può definire ‘dimenticata’ un’attrice che ha vinto due premi Oscar consecutivi come migliore protagonista femminile (record eguagliato solo da Spencer Tracy nel 1938 e ’39, Katharine Hepburn nel 1968 e ’69, e Tom Hanks nel 1994 e ’95: conseguito inoltre prima d’aver compiuto i trent’anni d’età, precedendo in questo primato Jodie Foster e Hilary Swank); considerando come in una carriera d’attrice durata ben settantun anni (settantasei, se si aggiungono le interpretazioni teatrali e televisive) il suo contributo alla settima arte si è limitato alla partecipazione a soli diciassette film. Eppure, se in Germania, Stati Uniti e altri paesi di grande tradizione cinematografica la Rainer occupa lo spazio che le compete, in Italia lo spettatore ne ha ben scarsa contezza; ciò è dovuto anzitutto al fatto che le principali pellicole in cui ella lavorò hanno avuto scarsissime presenze televisive, e nel pur immenso e variegato spazio del web attualmente se ne trovano pochissime, solo in lingua inglese.

Prematura di due mesi, Luise Rainer era nata a Düsseldorf, in Renania, il 12 gennaio 1910, secondogenita e unica femmina dei tre figli di Heinrich e di Emilia Königsberger. Il padre, molto legato a lei e morbosamente possessivo, era orfano e apparteneva a un’agiata famiglia ebraica; aveva trascorso la fanciullezza presso uno zio nel Texas, rientrando in patria anni più tardi per occuparsi di import-export; la madre era pianista, da lei ricordata come «una donna calda e intelligente e profondamente innamorata di suo marito». Dopo Düsseldorf, i Rainer si spostarono ad Amburgo, quindi lasciarono la Germania per trasferirsi a Vienna, e, più tardi, vissero in Svizzera. All’età di sei anni, assistendo allo spettacolo d’un circo Luise s’innamorò di quel mondo. Era una bimba sveglia e ricca di energia fisica, che crescendo mise a frutto nello sport, vincendo alcune gare di corsa a scuola e mostrandosi provetta alpinista. Pian piano il suo interesse s’indirizzò verso la recitazione, tanto che a sedici anni, mentre la madre si trovava a Düsseldorf, col pretesto di recarsi da lei, una volta nella città natale si presentò al Teatro Dumont per sostenere un’audizione alla celebre scuola di teatro di Louise Dumont, tramite la quale nel ’28 esordì in palcoscenico come Wendla in Risveglio primaverile di Franz Wedekind.

Poco tempo dopo, grazie alle spiccatissime doti d’interprete la giovanissima aspirante attrice entrò nell’ensembe di giovani di talento che il celeberrimo regista Max Reinhardt aveva riunito a Vienna al teatro Josefstadt: ne facevano parte anche gli attori Hans Albers e Peter Lorre e i futuri registi Otto Preminger e Wilhelm Dieterle. Le sue prime interpretazioni spinsero più d’un critico a vaticinarle una promettente carriera. Negli anni che seguirono, si segnalò in Madeimoselle di Jacques Deval, Uomini in bianco di Sidney Kingsley, Santa Giovanna di George Bernard Shaw, Misura per misura di Shakespeare e Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Nel frattempo, nel ’32 aveva esordito nel cinema, nella commedia degli equivoci Desiderio 202 (Sehnsucht 202) di Max Neufeld, interpretando Kitty, una ragazza in cerca di lavoro, che viene scambiata per Magda (Magda Schneider), una milionaria che è invece a caccia di un marito. Seguirono, quell’anno stesso, Madame hat Besuch di Carl Boese, con Attila Hörbiger, Herbert Hübner e Hans Olden, e nel ’33 un’altra commedia, Heut kommt’s drauf an di Kurt Gerron, con Hans Albers ed Oskar Karlweis, ambientata nel mondo del jazz europeo, dov’ella era Marita Costa, la direttrice di una banda musicale formata da sole ragazze; questa pellicola, distribuita nei paesi anglosassoni col titolo Today Is the Day, scandalizzò il futuro ministro della Propaganda nazista Joseph Goebbels, che la definì «terribile spazzatura»: certo anche a motivo del fatto che, oltre a Luise, vi lavorarono altri artisti ebrei, a partire dal regista: non a caso, undici anni dopo il povero Gerron avrebbe perso la vita nel campo di concentramento di Auschwitz.

Luise Rainer

Nel frattempo, Luise s’era profondamente innamorata di un alto ufficiale dell’Aeronautica Militare Italiana, cedendo al suo assiduo corteggiamento: ma quando questi perse la vita in un incidente aereo finì per lasciarsi sedurre da suo fratello. In quelle settimane del tardo autunno 1934 venne chiamata a lavorare negli Stati Uniti: Phil Berg, un talent scout della Metro Goldwyn Mayer, assistendo alla recita di Una tragedia americana, versione teatrale dell’omonimo romanzo di Theodor Dreiser, restò colpito dalla sua straordinaria bravura, e persuaso d’aver scoperto una nuova Garbo le offrì un contratto di tre anni ad Hollywood. Senza mostrare grande entusiasmo (all’epoca era il palcoscenico a darle le maggiori soddisfazioni) Luise accettò, anche perché, scopertasi incinta, desiderava sottrarsi alla scabrosa situazione: così, il 9 gennaio 1935, s’imbarcò col suo cane Johnny sull’“Île de France” diretto a New York. Quando raggiunse la Mecca del cinema, il patron della MGM Luis Burt Mayer, il suo geniale braccio destro Irving Thalberg e lo story editor Samuel Marx avevano visionato alcuni film da lei interpretati, ricavandone un’ottima impressione. Bruna e flessuosa, occhi fondi vivaci e sognanti e magnifico sorriso, Luise era dotata di garbo e freschezza e di un’invidiabile eleganza naturale. È certo che, nel più stretto anonimato, dové abortire; Mayer le assegnò subito un’insegnante d’inglese, l’attrice Constance Collier, che le permise rapidamente di avere padronanza della lingua e una dizione più che soddisfacente.

Pochi mesi dopo Luise debuttava nel cinema americano nella commedia romantica La modella mascherata (Escapade) diretta da Robert Zigler Leonard, a fianco di William Powell. La pellicola era il remake del film Mascherata (Maskerade) di Willi Forst, una commediola tedesca uscita neppure un anno prima: ella ottenne la parte per la rinuncia di Myrna Loy, quando la lavorazione era già avviata da settimane, e se la cavò egregiamente, suscitando molto interesse tra pubblico e stampa. Nonostante ciò, quando assisté alla proiezione d’anteprima dell’opera fuggì dal cinema sconcertata: «Sullo schermo sembravo così grande e dalla faccia piena, era orribile» ricordò tempo dopo.

Il secondo impegno professionale dell’attrice renana per la MGM fu in un altro film diretto da Leonard, Il paradiso delle fanciulle (The Great Ziegfeld, ’36), biografia musicale del celebre impresario Florenz Ziegfeld (William Powell), nella quale ella impersonò l’attrice e cantante polacca naturalizzata americana Anna Held, prima moglie di Ziegfeld; nel cast c’era anche Myrna Loy, nel ruolo dell’attrice Billie Burke, seconda moglie dello stesso. Per affidarle la parte, Thalberg dové persuadere Mayer, che la riteneva troppo modesta per Luise, essendo quest’ultima «ormai una star»: ma ella l’accettò convinta, e da figura tutto sommato secondaria rese quel personaggio memorabile, raggiungendo il culmine dell’espressività nella scena in cui, parlando al telefono con l’ex marito, si congratulava con lui per le sue seconde nozze: quel suo mantenere il dialogo con Ziegfeld in bilico tra l’ostentata allegria e lo sconforto, per poi, al termine del colloquio, sciogliersi in lacrime, impressionò tutti. William Powell, che la stimava moltissimo, la definì «un’artista creativa» che «pensa a ogni sfumatura di emozione per farla sembrare vera». La sera dell’assegnazione degli Oscar lei era rimasta a casa, non immaginando di vincere: invece, il premio 1937 per la migliore attrice protagonista andò proprio a lei, che s’impose su Irene Dunne, Gladys George, Carole Lombard e Norma Shearer; così, Mayer dové inviare in gran fretta a prenderla il responsabile della pubblicità MGM Howard Strickling. A Luise venne assegnato anche il New York Film Critics Circle Award for Best Actress.

Luise Rainer

Il suo successivo impegno cinematografico fu quello che le meritò il secondo Oscar: la parte della contadina cinese O-Lan nel drammatico La buona terra (The Good Earth, 1937) di Sidney Franklin, tratto dall’omonimo romanzo di Pearl Sydenstricker Buck appena premiato con il Pulitzer per la narrativa. Quasi agli antipodi di quello di Anna Held, il ruolo era quello d’una donna di poche parole, umile e sottomessa al marito Wang (Paul Muni). Anche stavolta, Thalberg dové penare parecchio per convincere Mayer che per quel personaggio Luise era perfetta: lei stessa, per raggiungere la massima verisimiglianza con una donna cinese rifiutò d’indossare una maschera di gomma dai tratti orientali, affidandosi a sapienti truccatori. La lavorazione del film fu segnata da due tragici avvenimenti: il suicidio del regista George William Hill, al quale la produzione aveva inizialmente affidato l’opera, e la morte improvvisa di Thalberg - a soli trentasette anni, per un attacco di cuore - , a cui poi La buona terra venne dedicato; la perdita di Thalberg costituì per Luise un colpo fortissimo, per la sintonia che la legava a lui. Con la sua prova drammatica nell’Academy Award 1938 la nostra attrice mise in fila Irene Dunne, Janet Gaynor, Barbara Stanwyck e una certa Greta Garbo. Luise considerò sempre questa parte come uno dei «più grandi risultati» della sua carriera nella settima arte.
Per la nuova regina di Hollywood - che nel frattempo si era sposata col drammaturgo, regista e sceneggiatore Clifford Odets, anch’egli d’origine ebraica - sembravano aprirsi nuove stimolanti prospettive, ma purtroppo non fu così. Dopo un paio di progetti abortiti, Luisa interpretò la contessa Olga Mironova nel thriller romantico I candelabri dello zar (The Emperor’s Candlesticks, ’37) di George Fitzmaurice, per l’ultima volta a fianco di William Powell, quindi offrì un’altra grande prova attoriale nel melodrammatico La grande città (Big City, ’38) di Frank Borzage, vestendo i panni di Anna Benton, la moglie del tassista Joe (Spencer Tracy), che a causa di contrasti tra compagnie di taxi, essendo straniera rischia d’essere rimpatriata. Risalgono al ’38 anche altri tre film, che per lei furono gli ultimi col marchio MGM: il drammatico Frou Frou (The Toy Life) di Richard Thorpe, accanto a Melvyn Douglas e Robert Young, dove incarnò la protagonista Gilberte Brigard detta ‘Frou Frou’, la biografia musicale Il grande valzer (The Great Waltz) di Julien Duvivier, in cui impersonò Poldi Vogelhuber, moglie del compositore Johann Strauss jr. (Fernand Gravey), e il dramma sentimentale Passione ardente (Dramatic School) di Robert Bruce Sinclair, con Paulette Goddard, Lana Turner, Alan Marshal e Genevieve Tobin. Film accolti piuttosto bene: soprattutto Il grande valzer, in realtà un po’ melenso, che costituì l’ultimo grande esito dell’attrice.

Ella infatti, che non amava lo «stile di vita glamour di Hollywood», alla MGM si sentiva «un cavallo in una stalla» e non gradendo apparire nelle commediole, preferiva ruoli anche circoscritti ma impegnativi: mentre Mayer la vedeva esattamente al contrario. Sicché un giorno, benché avesse firmato da poco un impegno settennale con la MGM, Luise si recò dal gran capo e affrontò la questione: - Devo smettere di fare film, la mia fonte si è prosciugata. Lavoro dall’interno verso l’esterno ma dentro non ho più niente da dare. - Quando Mayer le chiese di sedersi sulle sue ginocchia come facevano molte sue attrici lei appuntò: - Non ha comprato un gatto in un sacco. - Imbestialito, lui la congedò con queste parole: - Ti abbiamo creato e ti distruggeremo. - Ella replicò fredda: - A crearmi è stato Dio, non lei.

Luise Rainer

Luise si trasferì a New York, per vivere col marito, che lavorava con il Group Theatre: ma tra loro le cose non andarono bene fin dall’inizio, tanto che Odets si consolò subito con l’attrice Frances Farmer; lei inoltre si scoprì di nuovo incinta, e senza dire nulla al coniuge si sottopose a un nuovo aborto. Nel maggio ’40 i due divorziarono. Luise tornò a dedicarsi al teatro, interpretando nuovamente la Santa Giovanna di Shaw. Fu soprattutto grazie a lei se nel ’42 Bertold Brecht poté fuggire negli Stati Uniti, dove l’anno seguente, su suo suggerimento, scrisse il dramma Il cerchio di gesso del Caucaso. Data al ’43 anche l’ultimo film hollywoodiano dell’attrice: il bellico Hostages di Frank Tuttle, a fianco di Arturo de Córdova, che venne prodotto dalla Paramount.

Nel ’46 sposò l’editore Robert Knittel, dal quale l’anno seguente ebbe la figlia Francesca, e per la circostanza si convertì al cattolicesimo. La loro unione fu solida, ma venne messa a dura prova quand’ella apprese che i genitori di lui erano simpatizzanti nazisti: tanto che quando la cosa si riseppe negò di prestarsi alla loro riabilitazione, e chiese addirittura il divorzio dal marito. La coppia visse tra la Svizzera e Londra: Luise lavorò in teatro, apparendo in alcuni sceneggiati e altri programmi televisivi. Si dedicò anche alla pittura, e ricusò varie proposte cinematografiche, tra cui quella di Fellini per un ruolo ne La dolce vita. Soltanto nel 1997, ottantasettenne, apparve nel ruolo della nonna nel dramma romantico The Gambler di Karoly Makk, tratto dal romanzo Il giocatore di Dostoevsky, e nel 2003 fu se stessa in Poem: Ich stezte den Fuß in die Luft und sie trug di Ralf Schmerberg, parlando in tedesco sullo schermo per la prima volta dopo più di settant’anni. Rimasta vedova nel 1989, da allora ha vissuto a Londra, nel quartiere di Belgravia, al 54 di Eaton Square, in un appartamento abitato in precedenza da un’altra vincitrice di due Oscar: Vivien Leigh. Luise si spense lì il 30 dicembre 2014 a causa di una polmonite, tredici giorni prima di festeggiare il suo centocinquesimo compleanno. La Hollywood Walk of Fame le ha dedicato una stella al 6300 dell’Hollywood Boulevard.

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